Il capitano

Era un pomeriggio sereno, senza vento, senza nuvole e i dolci raggi dorati del sole penetravano nella stanza.*

Finalmente aveva riposato, per un’intera notte e per buona parte della giornata, di un sonno ristoratore. Il mondo fuori della finestra sembrava rispondere allo stesso richiamo della sua pace.

Ritornare alla sua casa immersa nelle colline toscane, circondato dal familiare uliveto, aveva sempre, su di lui, un benefico effetto rilassante.

I mesi che trascorreva in mare erano duri, ma gli ultimi incarichi erano via via stati più pesanti.

Da un lato un ovvio riconoscimento alle sue capacità, la naturale conseguenza della sua carriera.

Ma il risvolto della medaglia era il dover prendere atto che il tempo, implacabile, stava iniziando a presentare il conto. Non lo avrebbe certo ammesso con nessuno, ma la stanchezza, emotiva ancor più che fisica, rischiava di compromettere le sue capacità.

D’altro canto, non si può assaltare navi e combattere pirati per tutta una vita.

Come per una sorta di legge del contrappasso, Franco era tanto attivo in azione quanto pigro nei periodi di vacanza. Si dedicava pazientemente alla cura del giardino, o alle piccole riparazioni domestiche, senza affanno, senza fretta, quasi assorbendo il ritmo della natura lì così presente.

“Dovrei proprio decidermi a far sistemare quel solaio” pensò, guardando ancora una volta il buco che si era formato nel soffitto del grande ripostiglio. Ormai era grande abbastanza da passarci dentro!

Ancora una volta vinse la pigrizia,  Franco chiuse la porta e tornò in cucina, pronto ad affrontare la nuova sfida: i fornelli.

Dopo un paio d’ore di taglia e sminuzza, sbuccia e sciacqua, sala e assaggia, la cena era quasi pronta, se così possiamo definire quell’ammasso informe che Franco si ostinava a rivoltare nella padella, quando il suo sesto senso gli fece scattare un campanello nella testa.

Spostò la padella dal fuoco e posò il mestolo, chiudendo gli occhi per concentrarsi ancor di più sull’udito.

Nulla.

Possibile si fosse sbagliato?

Ricominciò a respirare e, mentre stava per mettere un punto al tema “cena”, lo sentì. Un rumore, lieve, ma non certo frutto della sua immaginazione.

C’era qualcuno lì fuori? Il sole ormai tramontato non l’avrebbe più potuto aiutare.

Franco iniziò a riflettere:

“Un viandante? Si sarebbe fatto sentire ben prima di arrivare alla casa. Magari un riccio di passaggio? Bibo, il suo fido cane lupo avrebbe abbaiato all’impazzata, più contento di poter inseguire un nuovo amico di giochi che per velleità bellicose. Già. Bibo. Perché non sta abbaiando? Chiunque sia lì fuori, evidentemente, deve averlo già messo a tacere. E certo lui non può essere, visto che ne ho controllato la catena prima, portandogli la ciotola piena della sua cena.”

Già, la cena. Quel che stava cercando di preparare, con grande ed inutile sforzo, giaceva ormai abbandonato accanto ai fornelli. L’ammasso puzzolente nel suo ciclo di trasformazione da ingredienti a pasto non sembrava esser mai riuscito a suscitare una particolare attrattiva, ed ora, abbandonato, era pronto per concimare le begonie.

Franco accusò tra se e se anche di questa grave colpa l’ignoto intruso, anche se forse avrebbe dovuto ringraziarlo per avergli evitato la triste constatazione del suo fallimento culinario.

E di nuovo, un po’ più in là, stavolta più forte, si sentì un “crack”.

Franco si decise a prendere l’iniziativa: chiunque fosse lì fuori, non si sarebbe fatto cogliere impreparato.

Spense la luce, andò nella sua stanza e, a tastoni, prese i suoi più fidati compagni: la pistola e la sciabola.

Ora si sentiva più sicuro. Le armi erano diventate la naturale estensione del suo corpo. Non pensava mai, in duello, a quale colpo sferrare. Gli era sufficiente concentrarsi sui movimenti del suo avversario, per capirne ed anticiparne le mosse.

Ma l’essere stato strappato dalla quieta giornata ormai tramontata il cui picco di attività avrebbe dovuto esser quello di spaccare la legna per il camino, per esser trascinati a forza in una battaglia lì dove non avrebbero dovuto essercene, lo aveva scosso.

Non era certo il tipo da farsi dominare  dalla paura. La paura poteva essere un avvertimento utile in molti contesti, ma non doveva guidarne ciecamente le azioni.

Semplicemente sentiva quell’angolo di paradiso, che tale Franco considerava la sua piccola tenuta, l’antidoto alle estreme violenze cui ormai si era abituato. Senza, avrebbe potuto perdersi, arrivare a considerare “normale” quel modus vivendi. Viceversa, ogni volta che tornava a casa, si ricordava il senso delle sue azioni, il valore che avevano, per sé e, ancor di più, per tutti gli altri concittadini.

No, non avrebbe permesso che il suo amuleto venisse intaccato. A qualunque costo.

Altrimenti sarebbe diventato un’altra anima persa, nel sangue di una battaglia, sul fondo del mare.

Franco immaginò immediatamente, come era abituato a fare, un piano di battaglia. Quanti sono lì fuori? Fossero in molti non si sarebbero preoccupati di cogliermi di sorpresa: saranno 2, massimo 3 persone. Bene. Devo organizzare un diversivo, e coglierli di sorpresa.

Silenziosamente, ma il più velocemente possibile, andò a togliere il chiavistello alla porta, avendo cura di collocare una panca di traverso, davanti e ad una certa distanza dall’apertura: Che provassero ora a buttar giù la porta a spallate!

Poi, nel corridoio, aprì la botola che dava accesso alla cantina, e vi mise sopra il tappeto della camera da letto. Con poca luce, e nella concitazione della lotta, sarebbe stata una trappola perfetta.

Ora doveva trovare un modo per coglierli lui di sorpresa.

Tornò in cucina, riaccese la luce per guidare lì i suoi assalitori, ed entrò nel ripostiglio.

Lì dentro, al buio, lottando tra sacchi di patate, scope, una vecchia armatura e un sacco di altra roba di cui non conservava nemmeno più memoria, Franco iniziò ad arrampicarsi nel sottotetto, tramite il foro diventato improvvisamente provvidenziale.

Squit! Gli fece eco un topolino in lontananza, dal fondo del locale. E Franco mentalmente si annotò di dover mettere qualche trappola anche lì.

Una volta nel sottotetto, a carponi, cercò di orientarsi.

Nel tetto era presente una sorta di sportello, integrato nel fitto delle tegole, tanto che dall’esterno non era visibile. Utile per fare le manutenzioni al tetto, ma mai avrebbe pensato che…

“Eccoli!” Si sentì chiaramente il calpestio sulla ghiaia del vialetto davanti l’ingresso.

Franco doveva sbrigarsi, o avrebbe perso l’attimo in cui l’effetto sorpresa sarebbe stato al massimo, garantendogli la sopraffazione degli intrusi.

Trovato lo sportello, Franco si issò rapidamente sul tetto. Richiusa rapidamente ma senza far rumore l’apertura, si arrampicò sulla sommità del tetto, puntellandosi con i piedi al comignolo.

“Strano” pensò… “Non hanno ancora provato a sfondare la porta… Forse stanno cercando di scassinarla…”

Per cercare di scoprire cosa stesse accadendo, Franco iniziò a scivolare pian piano sul tetto, a testa in giù, dal lato corrispondente alla porta, un po’ facendo attrito con il corpo e con le mani, un po’ cercando appigli di fortuna con i piedi.

Era arrivato ormai a sporgere il naso oltre la grondaia quando i tre loschi figuri si decisero a.. bussare?!?!

La porta si aprì, rivelando la rudimentale trappola per loro predisposta, che, essendo stata inutile, si limitava a conferire all’interno della sala un aspetto quanto mai disordinato.

E Franco, un po’ per lo stupore, un po’ per il cedimento di una tegola, ruzzolò rovinosamente a terra, seguito con gran baccano dalla sciabola, dalle tegole, e dalla pistola, che essendo stata violentemente chiamata in causa pensò bene di voler dare il proprio contributo: “BUM!”

Se era l’effetto sorpresa quello che cercava, il risultato era stato da 10 e lode, molto oltre le sue aspettative. Al punto che, nonostante i tre si fossero bloccati nei movimenti, il più sorpreso di tutti era proprio Franco.

Le tre figure, appena appena riavutesi dal colpo, pian piano iniziarono timidamente a girarsi, per capire quale minaccia incombesse su di loro.

Bianchi come una luna piena, erano ormai perfettamente riconoscibili, anche nella fioca luce proveniente dalla finestra della cucina.

Gianni e Lorenzo evidentemente avevano saputo del suo rientro, e avevano deciso di fargli una sorpresa. E la sorpresa era madama Lucrezia!

O forse avrebbe dovuto essere quella cosa informe, mista a cocci, probabilmente buona, nella sua precedente vita di budino.

“Ma… Ma…” balbettò Franco mentre cercava di darsi un tono, e magari di trovare una scusa almeno plausibile, che desse cioè ai suoi amici un argomento minimamente degno, cui far finta di credere, e poter superare ridendo il piccolo incidente.

“Ragazzi, che bella sorpresa! Proprio non vi aspettavo…” esordì Franco.

Lorenzo, il primo ad aver ripreso un minimo i colori, provò a chiedere: “Ma che ci facevi a quest’ora, così bardato, sul tetto?”

Messo alle strette, Franco provò con una mezza verità: “Avevo sentito dei rumori… provenire dal tetto! Chissà che bestia c’era!”

E Gianni, di rimando: “Sì, sicuro c’era il Gatto Mammone!”

Scoppiarono tutti in una gran risata.

Mentre, ridendo e scherzando, consumavano l’improvvisata cena, Franco non riusciva a smettere di pensare a quanto accaduto.  Aveva reagito d’istinto, senza riflettere minimamente, o comunque il suo errore di valutazione solo per poco non aveva avuto conseguenze drammatiche.

Si, forse stava davvero diventando troppo vecchio per quella vita.

E la presenza, magnifica quanto inattesa, quella sera, di Dama Lucrezia, gettava nuova luce sulla sua prossima vita.

Una splendida luce.

Giulio Carabetta

*Kitchen, Banana Yoshimoto