Prigionieri

Era un pomeriggio sereno, senza vento, senza nuvole, e i dolci raggi dorati del sole penetravano nella stanza.*

Era lunedì ed Alida era seduta sul letto, pettinando i capelli, ricordava la giornata appena trascorsa con malinconia e tristezza. La sua vita fin ad allora era scivolata come un gomitolo di lana che corre via da una stanza all’altra, senza intoppi, morbidamente.

Quel pomeriggio guardava dalla finestra in ombra e il suo sguardo oltrepassava i vasi delle ortensie diventate ormai alte ed arrivava alla panchina ed alla pergola stracolma di glicine fiorito dove aveva conosciuto il bambino il giorno prima.

Quando al cancello si era presentato Willy, aveva pensato fosse il solito mendicante in cerca di elemosina, ma per la prima volta in vita sua si era specchiata nel suo sguardo da vicino. Non aveva mai guardato così da vicino qualcuno, di solito osservava le persone in generale, le soppesava e valutava esclusivamente dall’apparenza più superficiale, gli abiti, le scarpe, i capelli ravviati, era questo che le forniva la convinzione che si trattasse di un certo tipo di persona oppure no. Le bastava un’occhiata e via… sapeva bene con chi avesse a che fare giovani o vecchi, neri o bianchi, pensava di conoscerli tutti e di avere un intuito magistrale nel capire le persone.

Quella volta no, quel bambino poche ore prima l’aveva attraversata con il suo sguardo e non aveva visto altro. I suoi occhi color paglia le avevano ricordato quelli di un gatto in cerca di riparo in una notte di pioggia rumorosa come spesso si vedevano dalle sue parti. Willy aveva suonato alla porta con un documento d’identità attaccato al collo: Willy Chozod, Russian Federation, anni 8.

Il bambino era stato accompagnato da un’assistente sociale, donna di mezza età di aspetto spigoloso e cavallino, al suo fianco il bambino, che la donna premeva perché passasse al più presto attraverso il grosso cancello di ferro battuto che imprigionava nelle ante due figure di cervi con le corna al cielo. Sembrava che la donna volesse liberarsi al più presto dell’incombenza alla quale il bambino l’aveva costretta.

Alida, vedendo i due, aveva pensato stranamente a quei poliziotti che anni e anni prima avevano riportato lei stessa a casa scappata dalla scuola, stessa aria monolitica, stesso atteggiamento rigido. E così Willy fu sospinto nel cortile come se finalmente potesse diventare problema ed impegno di quella casa occuparsene.

- La vita è strana – pensò Alida – quando pensi che scorra monotona e che i giorni si infileranno tutti uguali, ti stupisce.

Martedì trovò il bambino arricciato nella cuccia del cane, aveva dormito lì dentro, come se quel riparo così piccolo potesse contenerlo interamente, dove aveva vissuto finora? Dal suo arrivo Willy si era mosso per la casa in modo audace e deciso, Alida notò però varie ossessioni, quella di mettere i piedi sempre in fila l’uno all’altro e quella di accostare con precisione le sedie al muro, sembrava un rito antico. Prima di andare a dormire, premeva il letto al muro due volte dal lato più lungo ed una volta dal lato più corto, ma non dormiva mai. Anche lei faceva le stesse cose da piccola.

- I bambini spesso hanno comportamenti rituali, li aiuta ad avere sicurezza – pensò.

In cucina, mentre Alida preparava per il pranzo, Willy disponeva con attenzione tutto in fila ordinata, i barattoli, l’olio, i piatti.

La notte Willy non la passava nel suo letto, sembrava desiderare dei ripari alternativi per rifugiarsi: la vasca da bagno, il sotto lavello, l’armadio del corridoio, la cassapanca.

Alida si era accorgeva che la notte Willy non era stato nel suo letto ma lo lasciava fare, non poteva opporsi alla volontà di quel bambino, il suo sguardo era troppo forte, agganciava quello della ragazza ed una forza straordinaria la costringeva ad azioni insolite che non aveva mai fatto.

Ballare da sola. Aveva acceso la radio con il solito gesto meccanico che faceva quando non voleva annoiarsi e un potente motivo rock aveva invaso la cucina,aveva lanciato uno sguardo a Willy ed era stata trattenuta da lui che la faceva muovere senza freni per la stanza a quel ritmo, non riusciva a fermarsi, non sapeva se voleva farlo o se era costretta.

Alida era preoccupata. I suoi strani cambiamenti non si limitavano solo a questo ma era diventata una ragazza diversa e strana.

Willy era sempre con lei. Lo portava con se anche sul lavoro, il bambino si sistemava in uno scatolone di vecchi documenti polverosi e gialli e da lì osservava e dirigeva.

Alida era sempre stata piuttosto rigida ed educata, stava diventando ribelle e disordinata e questo non le piaceva. Mercoledì, era entrato il suo capo nella stanza, personaggio detestabile ed arrogante ed aveva, come sempre, cominciato a parlare per ore e lei , che di solito subiva, aveva iniziato a guardare l’orologio e a dare segni d’impazienza come mai aveva fatto.

Il ragazzo era entrato nella sua vita, nel suo corpo, nei suoi occhi , nei suoi gesti.

Alida era disorientata, si chiedeva come e perché Willy fosse arrivato. Giovedì mattina lo cercò come sempre per la casa, doveva scoprire il suo rifugio per la notte e lo scovò accovacciato nel camino di pietra avvolto in una coperta che aveva trascinato dal suo letto, lo toccò leggermente e scoprì un lembo della sua schiena e vide una cicatrice lunga con i margini in rilievo, era la stessa che aveva lei sul dorso, sulla stessa parte della schiena. Rimase stupefatta dalla coincidenza, quella cicatrice era identica alla sua nelle dimensioni, nella profondità, nel colore. Venerdì, la sera, dopo cena, il ragazzo si incantò cantando la stessa filastrocca per un’ora di seguito . Era una poesiola in francese fatta di rime senza senso che la nonna di Alida aveva inventato e cantava solo per lei. Man mano che la ragazza conosceva il ragazzino ,le coincidenze con se stessa continuavano. Ogni giorno ne scopriva una nuova e diversa che la stupiva, incuriosiva ma la terrorizzava allo stesso tempo. Quella sera stessa lo affrontò, lo fece in francese, l’unica lingua con la quale comunicavano.

- Perché hai quella cicatrice sulla schiena? – gli chiese semplicemente.

Lui non rispose ma la guardò con intensità e rimase impietrito.

Il risultato di questi silenzi era che Alida iniziava a temere che Willy fosse un fantasma, uno di quei mostri fatti di aria e di assenza di cui aveva tanta paura. Di notte non la spaventava l’idea che un ladro potesse entrare nella sua casa ma temeva da sempre la presenza delle “essenze”,come le chiamava lei e si svegliava nel cuore della notte dalla paura, rimaneva nel letto congelata, non muovendo neanche un sopracciglio, il corso del sangue si bloccava e stava in attesa di udire altri movimenti che le confermassero che qualcuno o qualcosa era entrato in casa sua.

Di certo Willy non era una persona reale. Quando si lavava non lasciava impronte e l’acqua scorreva su di lui come se il suo corpo non esistesse. Era il momento di capire.

Sabato mattina, mentre il ragazzo era fuori a giocare, lei entrò nella sua stanza ed iniziò disordinatamente a frugare nelle sue cose, si trattava di pochi oggetti che il ragazzo aveva radunato sullo scrittoio sotto la finestra. Da quella posizione, Alida, quando era più giovane, poteva dominare con la sguardo tutto il giardino ed anche più in là, attraverso la campagna bruna macchiata di verde fino al lago.

Ecco il passaporto, una sciarpa corta, strano, quella sciarpa le ricordava la sua, da piccola la stringeva fra le mani in una vecchia fotografia. Un sacchetto di biglie, ma quelle non erano le stesse che aveva perso al mare tanti anni prima? La sua bambola, come poteva essere proprio Susanna, la sua preferita?

Tutti gli oggetti ed i pensieri che faceva la riportavano ad una connessione con il corpo e la mente di Willy, quasi a non riconoscere dove iniziasse il suo corpo e dove finisse quello del ragazzino. Malgrado tutto la sua vita migliorava, non aveva più ansie e non si sentiva più sola, il ragazzo era come il cuscino consolatore che portava con sé da piccola, le dava sicurezza e determinazione.

Willy sparì dalla sua vista per tutta la giornata di domenica e lei ebbe la sensazione di sentirsi persa.

Quella mattina Alida si svegliò quando il sole era già alto, si guardò intorno e non riconobbe tutto ciò che le era familiare al risveglio, il letto, l’armadio, l’antica toilette della nonna sulla quale poggiava la sera tutti i suoi anelli. Vide invece un soffitto di cemento grigio scrostato, puzza di piscio mista a cavolo nero, urla di bambini in sottofondo. Pensò di sognare ma non poteva essere così, i suoni la colpivano fisicamente, gli odori penetravano nelle sue narici provocandole chiaro disgusto. Si guardò le mani, erano diventate più piccole, lentigginose, le unghie cerchiate di nero, sotto le coperte sentiva il suo corpo provocarle sensazioni nuove, guardò sotto e vide le cosce muscolose e poi le gambe nervose. Fu presa dal terrore, non riusciva a capire cosa le stesse succedendo, a poco a poco tutto ciò che era il suo mondo si era dissolto, non riusciva a formulare un pensiero reale, era tutto bloccato. Si alzò e andò allo specchio, vide riflessa l’immagine di un ragazzino piccolo, gli occhi color paglia, il naso sporco. Una donna si aggirava per lo stanzone fumoso, aveva un bambino attaccato a sé con un marsupio verde, liso, sporco, rimestava dentro una pentola appoggiata ad una macchina del gas senza piedi e sbilenca , non si capiva come tenesse in equilibrio la pentola senza rovesciarne il contenuto. La donna la guardò e le impartì un ordine in una lingua simile al russo, incomprensibile. Alida iniziò a correre da una finestra all’altra con paura e sorpresa, scoprì un paesaggio brullo e giallo punteggiato di bianco, forse la prima o l’ultima neve.

Era prigioniera in un corpo non suo e in una casa sconosciuta povera e repellente. Chi l’avesse imprigionata non lo sapeva , voleva solo tornare ad essere Alida. Provò a rivolgersi a quella donna giovane ma sformata dalla fatica, forse sua madre, urlando nella sua lingua che voleva tornare indietro, ma niente, quella non capiva e la trattava come fosse una bestia. Le caricò nelle braccia quattro tronchi e a gesti, le fece capire che doveva alimentare il fuoco, fuori, nell’aia deserta.

Trascorsero vari giorni durante i quali Alida iniziò a conoscere meglio quello che sembrava essere stato sempre il suo ambiente. La madre, quattro fratelli e due sorelle grandi che non vedeva mai aggirarsi in casa perché lavoravano in città. Erano tutti fantasmi intrappolati in quella realtà misera e squallida. La comunicazione non esisteva, erano i bisogni elementari a guidare il comportamento di quella famiglia: mangiare, dormire, azzuffarsi di tanto in tanto. Lei voleva tornare alla sua preziosa vita, quella protetta ed armoniosa di sempre ed invece era prigioniera in un corpo scheletrico, famelico e per giunta maschile, quello di Willy. Cercava di non guardarsi mai, né allo specchio, né il corpo, l’angoscia iniziava ad attanagliarla, non si sarebbe mai abituata a quella vita ma la forza di reazione a quell’evento soprannaturale arrivò e lei riuscì a sopravvivere in quelle condizioni per lunghi giorni.

A notte fonda fuggì da quel tugurio, corse per chilometri e chilometri nel buio della campagna gelida, forse sperava di liberarsi del suo incubo ed invece, quando si fermava a riprendere fiato, il suo corpo odioso era lì che l’attendeva. Camminò per due giorni interi, ferendosi le braccia e le gambe magre passando nei rovi acuminati ma non le importava più, non teneva a quel corpo, poteva anche morire .

Nella città vicina finalmente raggiunta, fu raccolta in un vicolo da due giovani volontari che sostenevano i ribelli del conflitto, fu portata in un ospedale di fortuna e poi affidata ad un assistente sociale: Anna, era una donna solida, la sua vita era dedicata completamente ai bambini poveri di quelle terre in guerra da anni, si prese cura di Willy con interesse ma senza affetto, come sempre faceva per non soffrire di più. Doveva accompagnarlo alla famiglia alla quale era stato destinato, erano mesi che Willy non parlava più ed Anna non gli rivolgeva nemmeno la parola credendo fosse vissuto senza stimoli o traumatizzato da qualche fatto avvenuto.

Il viaggio in treno fu interminabile, i sedili scassati e sporchi accompagnarono Anna e Willy attraverso un paese ridotto allo strazio e alla povertà lungo confini che sembravano non finire mai Finalmente dai finestrini, l’ordine, i colori delicati delle case e la geometria regolare, la cornice dei viali alberati diedero la certezza ad entrambi di essere arrivati.

La donna spinse il ragazzino dentro il cancello e Alida seppe finalmente di essere tornata a casa solo che ancora non lo aveva capito. Quella giovane donna che l’aveva accolta si agitava e non riusciva a rasserenarsi. Fu tutto chiaro la domenica quando la sorella di lei tornò a casa dalle vacanze. Alida le presentò Willy, indicava la sua presenza abbracciandolo ma la sorella non vedeva nulla,la guardava interrogativa ed il suo sguardo attraversava Willy così come l’acqua scorreva su di lui nella doccia. Le due donne erano sole. Fu allora che Alida capì di essere finalmente a casa.

Antonella Cuomo

*Kitchen, Banana Yoshimoto