Quell'Arcobaleno

Quel pomeriggio, rientrato da una settimana trascorsa a Roma con i miei nipotini, andai di corsa da mia madre, era da tempo che non la vedevo, che non andavo a farle visita, certamente l’avrei trovata un po’ stizzita. Già scorgevo il suo mesto piglio, la sua finta noncuranza ed ero certo di trovarla attenta, con gli occhi bassi, a guardare giù i fiori delle aiuole e la poca gente che passava da quelle parti, tra quei vialetti poco transitati.

Avrei scommesso che non mi avrebbe degnato di un’occhiata, doveva farmi notare che da molto tempo non mi ero fatto vedere e per questo era triste; sarei dovuto andare più spesso, non lasciare passare tutto questo tempo, e già le sentivo dire: <Cosa hai fatto ultimamente? Sei stato molto impegnato? Non hai avuto tempo? Oh, questo santo tempo che ti manca!>.

Quando ero quasi arrivato, da lontano la vidi sul terrazzino che mi aspettava, pare sapesse che stavo giungendo, mi affrettai a salire le scale e la trovai lì, sorridente, felice, mi guardò dritta negli occhi e mi abbracciò. Mi abbracciò fortemente appoggiando il capo sulla mia spalla e poco dopo con un filo di lacrime, lacrime di gioia, mi diede il suo solito interminabile bacio sulla fronte.

Mi sedetti vicino a lei e iniziammo a chiacchierare, a parlare di tutto: di mia figlia, della sua famiglia, dei suoi marmocchi, del suo nuovo lavoro e di quando pensa di potersi prendere qualche giorno di ferie e portare i bimbi al mare, giù da noi a Marina.

Parlammo dei viaggi a Roma, che con mia moglie facciamo spesso e ci sembra sempre troppo poco; parlammo pure del mio mal di schiena che talvolta mi tormenta, e mi raccomandava di fare attenzione agli sforzi, di coprirmi bene per proteggermi dai colpi d’aria, di non usare troppo spesso la moto perchè fa freddo e perchè col traffico di oggi sono più che mai pericolose.

Come sempre mi ero sbagliato, mamma non era arrabbiata con me, non lo è mai stata; forse ero io ad esserlo con me stesso.

Discutemmo delle mie sorelle, del loro lavoro, dei loro figli e oramai anche dei nipotini.

Le dissi delle mie ansie, dei miei desideri sottaciuti che conosceva benissimo, delle mie ore libere spese inutilmente, dei miei versi che mi sembrano sempre inadeguati e delle mie ratte passioni, anche quelle da lei risapute e mai approvate.

Di tanto in tanto mi appoggiava la mano sul capo, sui capelli come per riordinarli, ma era solo una scusa per accarezzarmi, ed io sentivo la sua mano come un segno divino che mi proteggeva.

Le raccontai, insomma, della mia quotidianità che troppo spesso ritengo sterile, e m’incoraggiava sostenendo che siamo ciechi a non vedere le meraviglie che accompagnano la nostra esistenza.

Quel giorno non aveva smesso di piovere, una leggera pioggia con un grigiore incerto e, proprio quando ero con mia madre, come per incanto, il cielo si schiarì e si formò un magico arcobaleno che partiva da un lontano monte e saliva alto su nel cielo per poi tuffarsi in un infinito azzurro mare.

La mamma era lì, immobile, affascinata da quella pennellata di mille colori, da quel magico arco che silenziosamente univa il mondo, da quella grandezza che figurava l’immagine di Dio.

Poi si fece tardi e venne l’ora di andare, mi strinse forte le mani come a volermi dire di non lasciarla, di rimanere ancora un po’. Ci abbracciammo e le promisi che sarei tornato a farle visita, a trovarla molto presto, e lei, con la sua solita quieta voce, sospirò: <quando puoi figlio mio, quando puoi, stai tranquillo!>.

Ci salutammo e andai.

Mentre scendevo le scale, mi giravo spesso e la vedevo con i suoi bellissimi occhi, lucidi, che mi seguivano, che seguivano ogni mio passo; mi fermai di colpo e di corsa, tornai indietro … avevo sistemato i fiori e mi ero scordato di accendere quel vecchio lumino, vicino alla sua foto, di fronte all'arcobaleno.

Gianni Di Giorgio