C'erano proprio tutti

Quell’anno il grano era alto. A fine primavera aveva piovuto tanto e a metà giugno le piante erano più rigogliose che mai. Crescevano fitte cariche di spighe, pronte per essere raccolte. Giacomo le osservava attentamente, molte volte al giorno, per capire quando sarebbe arrivato il momento giusto. In quella stagione gli sembrava di vedere una trasformazione inconsueta, quasi magica, come se le piante prendessero via via una forma vitale nuova.

Era un uomo attento, che amava il proprio lavoro, e alla coltivazione dedicava parte della sua anima. Ad un certo punto gli sembrò addirittura, nel quotidiano frusciare, di percepire delle voci. Conservava tuttavia il senso rude di un lavoro faticoso che mai gli avrebbe permesso di perdere la concretezza delle cose. Eppure era convinto di non essersi sbagliato, erano proprio voci quelle.

Rimase in silenzio, immobile, in compagnia del battito sicuro del suo cuore. Ed ecco di nuovo il suono si rimescolava: fruscio, battito, e… Cominciò a camminare tra le spighe e continuava a sentire di essere solo. Si guardò intorno, accarezzò i morbidi steli, quasi per avere conferma del luogo e dell’esistenza di quella natura che conosceva molto bene o meglio che gli sembrava di conoscere…

In quel preciso istante qualcosa cominciò ad agitarsi in direzione di lui. Che stava succedendo? Erano spighe quelle che vedeva? Ma le spighe non sono in grado di muoversi.

Rimase immobile, con gli occhi ben aperti e le orecchie in ascolto. - Giacomo, Giacomo… - lo chiamò per nome una voce sottile - Giacomo ti ricordi quando cadesti qui, proprio qui, eri ferito ed avevi paura, cominciasti a gridare "Nonnooo, aiutooo!" ma eri distante da casa e nessuno avrebbe potuto accorgersi di te. Così, Bela e io abbiamo medicato le tue ferite e ti abbiamo coperto con le nostre fronde, eh Giacomo ti ricordi?

Giacomo non ricordava proprio nulla. Era solo stordito e molto preoccupato.

Che significato dare a tutto ciò? Era sveglio o stava sognando?

Non gli capitava spesso di sognare, la sera era così stanco che non si accorgeva neppure di scivolare nel sonno!

Un sogno? Il ricordo? Non aveva memoria di nulla, tantomeno di suo nonno, quasi gli sembrava di non averlo mai conosciuto e di non essere mai stato bambino.

Quella storia della memoria lo turbava quasi più di pensare ad un campo di grano animato.

Aveva sempre avuto seri problemi con la memoria, rispetto alla sua infanzia conservava solo un grande vuoto. Il nonno, la casa, i suoi amici, la scuola, persino il volto di sua madre, erano sprofondati in una fitta nebbia e non riusciva davvero a ricordare nulla.

Una volta, nel bisogno di una vita che potesse finalmente sentire sua, pensò addirittura di ricorrere all’ipnosi: qualcuno gli aveva detto che il sonno artificiale avrebbe potuto restituirgli il suo mondo. Poi le stagioni, gli anni, il dover essere si erano sovrapposti senza riuscire a far nulla.

Sentì un fremito poi di nuovo voci, stavolta più di una…

-E tua nonna come sta?

- Hai più ritrovato la tua palla?

Come d’improvviso ne ebbe l’immagine nitida e chiara: era leggera, colorata, con la figura di Randal ben impressa sulla superficie, gliela aveva regalata sua madre, per la sua prima pagella, accompagnandola con un caloroso bacio. Quando la colpiva con il piede o la lanciava in aria riusciva ad arrivare lontanissimo, proprio dove avrebbe voluto andare lui sempre troppo lento per le mete audaci. Allora esistevano i suoi ricordi di bambino!

Si sentì improvvisamente felice.

Quasi con l’esigenza di spingersi oltre cominciò lui a far domande a quelle che erano diventate le sue amiche spighe.

- Quel ragazzo con cui venivo qui durante il temporale, vi ricordate di lui? Come si chiamava?

- Eh..., si era Marco

- Eravamo molto amici e mi piaceva stare con lui, una volta addirittura ci mettemmo a correre senza respiro, per poi tuffarci nell’era alta, senza più forza. Ricordate? Un’altra arrivammo con le bici, senza usare i freni, gli tagliai la strada e lui senza pensarci su, scese dalla bici e mi mollò un ceffone. Era bello stare con Marco, sempre più bello. Alla fine del primo liceo lasciammo indietro tutti per correre qui, ci tenevamo per mano, lui mi stringeva forte e non voleva lasciarmi andare via. Poi con uno strattone mi portò vicino a sé, afferrandomi con un braccio la vita… Poi…

Cos’era successo poi? Il ricordo si era di nuovo bloccato. Aveva quasi creduto di riuscire a farcela e di riprendere il filo della sua vita di bambino, di ragazzo, di uomo. E di nuovo niente.

Con un filo di speranza riprese a girare intorno, ad accarezzare le spighe, a cercare domande, ad aspettare risposte…

Il silenzio lo invase.

- Ehi, Bela, almeno tu non mi abbandonare: ho bisogno di ricordare! Tu c’eri quel giorno. Parla, che cos’è accaduto? Perché sento solo un rumore sordo?

Tutto tacque.

Poi di nuovo una voce venne fuori, inconfondibile, netta, ma stavolta era lui che raccontava, era lui che parlava e si ascoltava quasi come fosse due persone in una.

- Marco ha urlato forte, poi con la mano mi ha tappato la bocca, poi ha tolto la mano e ha appoggiato le sue labbra, io ero bloccato e lui premeva sempre più deciso nel tentativo di baciarmi, la mia inerzia lo aveva innervosito e cominciò ad usare la forza ... Io non volevo, ma che cosa mi aveva impedito di reagire fino a quel momento? Senza trovare risposta riuscii a divincolarmi e senza più voltarmi corsi veloce verso casa. A casa non c’era nessuno, invano gridavo "Nonnooo … mammaaa … dove siete?" Il vuoto della casa mi aveva raggelato, cominciai a tremare senza riuscire a fermarmi, la mamma quando tornò mi trovò sotto la doccia, ma ormai erano passate più di due ore e l’acqua che continuavaa scorrere era ormai gelida e la mia pelle era diventata violacea. La mamma non rendendosi conto mi rimproverò freddamente. "Che pensi di fare, sciocco, vuoi prenderti una polmonite a giugno!" Chiuse di scatto il rubinetto e mi lasciò solo. Non dimenticherò mai il senso del nulla che prendeva forma diventando sempre più incombente: tutte le figure care ormai si erano dissolte e anche quello spazio in cui ero cresciuto era diventato inospitale e estraneo. Forse è da allora che smisi di parlare con mio nonno, di rivolgermi a mia nonna, di abbracciare mia madre. Ero diventato solo.

Riuscì  a chiudere gli occhi, poi a riaprirli. Si toccò addosso e lo fece più volte per capire dove fosse finito il suo sé. Si sentiva libero, leggero, con un grande desiderio di esserci. Concluse che ora si, le spighe erano prone per la mietitura. Si sarebbe organizzato per l’indomani. Si voltò e proseguì con lentezza, diversamente da come era abituato a fare da anni, per non perdere nulla di quell’odore rigenerante. Arrivò a casa spossato pronto per una calda e agognata doccia. Preparò il bagno e ne uscì con una sensazione di attesa. Si precipitò nello studio e munito di scala prese a sfogliare un vecchio album di foto: erano i tempi del liceo, c’erano proprio tutti Giorgio, Alessandro, Marco e anche Stefania. Gli piaceva molto Stefania, da allora non l’aveva più vista, chissà come era andata la sua vita?

Cercò il numero sulle pagine bianche e non si lasciò sfuggire la fortuna di quella ricerca fruttuosa,

- Ehi, sei proprio tu, Stefania? - sentiva che non era cambiato nulla - Ti va di prendere una birra stasera? Bene allora passo a prenderti.

 

Cristina Tarantino