Campane

Non sto a dirvi cosa mi evoca la parola “campane”. Lo scoprirete presto.

Qualcuno penserà al fastidio dello scampanio la mattina presto.  Qualcuno alla voce argentina che viene dai campanili di campagna,  qualcuno penserà alle persone sorde come le campane. Altri penseranno al gioco della campana. Oppure ai biglietti di auguri di Pasqua piene di agnelli e di campane. Niente di tutto questo.

Se sfilo dal cilindro del tempo i miei primi ricordi, escono fiumi di parole, che la mia mente imparava a riconoscere, già attenta a capire e catalogare. 

Mi viene in mente la parola “san Pietro”, ma grazie, mio papà ci lavorava! Ricordo ancora la parola “Domitilla”, che era la mia bambola; ricordo la mamma che diceva al mattino :”Andiamo al mercato!”: mi piaceva tanto andare tra quelle bancarelle a comprare cose di tutti i colori!

La parola “campane” però era quella che risuonava più spesso.

La campana della Predica è fuori tono…La campanella destra perde colpi….Vado a suonare la campane per il vespro….Va regolato l’orario delle campane, le giornate si sono accorciate di un quarto d’ora…  Per le  campane a distesa oggi mi aiutano Alberto e Fernando…

Si trattava delle campane di San Pietro.   Nella Roma ancora piccola dei primi anni ’50, il suono delle campane della Basilica si sentiva ovunque e i romani lo riconoscevano.

 Mio padre allora era il campanaro, come lo erano stati prima mio nonno e mio bisnonno.  Per me bambina era come un mago, spingendo dei bottoni in una piccola cabina nel portico della Basilica o su al campanile,  dava il via ad un concerto meraviglioso.

Ma non era andata sempre così!  Quando mio padre era bambino, nonno Pippo doveva salire fino su al campanile: al mattutino, a mezzogiorno, al vespro, a un’ora di notte. Poi, la domenica o le altre festività per suonate più solenni.  Oppure ai funerali di qualche cardinale o canonico di S.Pietro.

 Ma il pezzo forte era il campanone: giornalmente si suonavano solo i tocchi col martello esterno nelle varie ore, ma a San Pietro o a Pasqua si doveva suonare a distesa.  E allora la situazione era seria: occorrevano dodici uomini robusti e altrettanti di ricambio, più  tante accortezze che solo  pochi conoscevano per muovere quel gigante sonoro e farlo suonare per il tempo previsto, non di più e non di meno, e poi fermarlo con perizia.

Nel 1931, quando mio padre aveva diciotto anni, una ditta tedesca elettrificò le campane, come si legge in una piastra di bronzo sul campanile e in un’altra collocata nella piccola cabina, situata nel portico della basilica, da cui si comandavano tutte le sonate, tranne quella del campanone a distesa.

Era un’operazione che, anche se ormai meno faticosa, necessitava sempre di tanta perizia.  Bastavano ora quattro uomini e posso raccontare io stessa la procedura perché papà mi portava spesso con lui.

Uno di loro, di solito mio padre, si metteva davanti al quadro elettrico in una cabina di vetro che attutiva il  tremendo rumore.  Altri due armeggiavano intorno al campanone  e alle campanelle, mentre  l’ultimo guardava che le altre tre campane dietro, il Campanoncino, la Rota e la Predica, si muovessero a dovere, con i loro suoni più armoniosi , ma poco udibili da terra perché sopraffatti da quello sordo del Campanone.  Diceva sempre papà che per sentire il concerto in modo ottimale sarebbe stato meglio andare nella piazza dopo l’Arco delle Campane, all’interno del Vaticano. Sembra facile, oggi è praticamente impossibile entrare!

Gli uomini in piedi dentro il campanone scioglievano  il patocco,  lo lasciavano andare dando nello stesso tempo un forte spinta alla grande campana. Appena il patocco dava il primo colpo alla campana semovente, mio padre al quadro faceva partire i tocchi esterni per dare un po’ di risonanza. Attaccava immediatamente il suono a distesa e Valadier, (era il suo nome ufficiale) partiva nell’aria, mentre si dava il via alle campanelle e alle altre campane retrostanti.

A concerto avviato eravamo tutti emozionati e tutta Roma sentiva il Campanone a distesa. Che momenti!  Io ero piccina ed avevo una paura terribile, perché il rumore arrivava fino al cuore e ti stordiva completamente.

Dopo circa un quarto d’ora, iniziava l’operazione di rientro.  Papà staccava il campanone, e dato che ci voleva molto a fermarlo, lasciava le altre innestate poi, con tempi che conosceva solo lui, iniziava a fermarle una alla volta, ultime le campanelle. Quando il patocco del campanone perdeva la capacità di suonare, in attesa che si fermasse attaccava il  martello che suonava i rintocchi. Il concerto finiva quando, nel ritrovato silenzio, si udivano gli ultimi rintocchi che venivano magistralmente distanziati fino allo stop finale, “morendo morendo” come diceva papà!

Mentre la folla applaudiva entusiasta, si vedeva la grande campana che batteva l’aria in silenzio per alcuni minuti. L’emozione era fortissima!

Quell’emozione non l’ho più ritrovata.  Mio papà ha smesso di lavorare nei primi anni ’70 ed ha continuato mio cugino Alberto, che è anche lui parecchio anziano ed ha smesso da molti anni.

Ora hanno digitalizzato il tutto, ma non ho avuto più voglia di sapere nulla per non intaccare le mie memorie.

Se vi siete accorti, non ho mai parlato di papi e di sonate apposite, forse per una svista, ma ci sono inciampata alla fine, quando i nodi vengono al pettine e quando i conti, di solito, tornano.

Tutte le campane a distesa si suonano anche per l’elezione del papa ed io ne ho sentite molte, ma ho “partecipato” con papà a quelle di Giovanni XXIII nel 1958 e di Paolo VI nel 1963, due papi che ho stimato e amato molto. Dopo l’annuncio del nuovo papa, si suonavano ancora per quella cerimonia che allora si chiamava “l’incoronazione”, cioè quando il nuovo papa veniva ufficialmente insediato.

Quando sta morendo un papa di solito è un momento di commozione triste ma comunitaria, fu proprio con Giovanni XXIII che ci abituammo alla morte del papa “in mezzo a noi”, con l’abbraccio di tutta la piazza piena fino all’orlo.

Nel pomeriggio del 2 aprile 2005 Giovanni Paolo II era moribondo. Passavano le ore e dissi a mio marito: “Andiamo in piazza che il papa muore!”. Appena arrivati, i maxischermi annunciavano che era sopraggiunta la fine e  calò per alcuni minuti  un silenzio di tomba.

Ero proprio davanti alla facciata e mi sono accorta che il campanone iniziava a volteggiare nell’aria.  Ero allibita e al primo tocco del suono “a morto” il cuore e la mente hanno perso il controllo: la suonata a morto con il campanone a distesa suona solo “una volta ogni morte di papa”, come diceva mio papà, ed ho iniziato a piangere tutte le mie lacrime.

Piangevano in molti e nessuno mi badava, mentre io, persa in tutte le mie emozioni, piangevo cullata dai miei ricordi.

 

Adriana Pieroni

20 gennaio 2016