Come l'aria

La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano la 5,30 e la sua camera da letto era inondata da una luce dorata come solo l'alba della sua città sapeva creare. Il risveglio la sorprese sulla cruna del sogno con questo pensiero e poche parole. Era un giorno lavorativo e aveva approfittato della pausa pranzo per ricaricarsi, ma si era addormentata: erano le 5,30 del pomeriggio, infatti e non l’alba, anche se la luce dorata del sole estivo ancora lontano dal tramonto poteva trarre in inganno. Aveva fatto un sogno strano: una moltitudine di persone raccontavano storie e lei era attenta a tutti, non le sfuggiva nulla, né un respiro, né uno sbadiglio. Amava gli abbracci e i baci e si stava perdendo ad ascoltare, quando il suono della sveglia aveva di colpo fatto sparire tutto. Era una sveglia nuova acquistata il giorno prima in un grande centro commerciale e lei si era subito divertita a regolare l’ora, l’icona del tempo, l’umidità, però non aveva fatto attenzione alle 24 ore e aveva sbagliato a sintonizzarla.

Si alzò con grande insoddisfazione, pensando che non sarebbe stato facile riprendere il lavoro, aveva dormito troppo per i suoi impegni, ma troppo poco per sentirsi sveglia a dovere.

Ripose il sogno con molta cura, come fa il pittore quando ripone i pennelli: li guarda da tutti i lati, accarezza le setole come fossero amanti e poi a malincuore li chiude a chiave in un cassetto.

Rebecca riprese il ritmo normale di una giornata lavorativa, anche se, per sostenere la sua confusione, ci sarebbero volute forti travi.

Come era bella la sua città! Non prese l’auto, ma salì sull’autobus per godersela meglio e ritrovare quella moltitudine di persone con cui era stata fino a quando la sveglia l’aveva interrotta. Passò via Marmorata, viale Aventino e i ricordi scesero subito dalle ciglia al cuore.

- Una volta dovrò ripercorrere queste strade a piedi – si disse – i ricordi non mi fanno male, è bello sapere che c’ero, che ho vissuto e non ho rimpianti, né rimorsi, ma una grande voglia di andare avanti.

I colleghi si accorsero che il sorriso di Rebecca era più luminoso del solito e si dettero di gomito.

- Chissà quale sogno ci racconterà oggi.

- Ho l’impressione che parlerà solo con il suo folletto.

- Lo penso anch’io, ha testa girata e un sorriso complice!

- Buon pomeriggio ragazzi – disse semplicemente lei entrando.

Risposero chi con un sorriso, chi con un ghigno o un gesto della testa, insomma, un saluto fra colleghi senza coinvolgimento vero. Rebecca andò alla sua scrivania. Era sempre ingombra di carte, ma quando, raramente, riusciva a fare ordine, non trovava più nulla, così aveva accettato questa sua condizione. Accese il computer e sul desktop apparve subito una bella foto di Roma, con quel suo cielo da favola: nuvole bianche, che sembravano scusarsi, si erano ritirate dietro il Colosseo, da cui improvvisamente uscirono note musicali, che invitavano a danzare. Rebecca, però, non riusciva a  muovere un passo e solo gli occhi e le mani potevano seguire quella musica.

- Oddio! – pensò – Se continua così rischio di scrivere qualche verso e diventare poeta.

E chiuse gli occhi, per non sciupare nulla di quel momento.

Non riusciva proprio a stare ferma, cercava di capire se i colleghi stessero notando la sua difficoltà, ma erano tutti presi dal lavoro e nessuno badava a lei. Era proprio quello che ci voleva e, cogliendo l’occasione, si alzò e uscì dall’ufficio. Mentre percorreva via dei Fori, piccole note le aprivano la strada verso il concerto e su quella musica iniziò a comporre parole, che presto divennero una melodia. Era un canto a tratti gioioso e a tratti straziante, che si dilatava inafferrabile nel tempo passato, per poi tornare alla realtà ed infine correre verso il futuro. Il sole era ancora lontano dal tramonto e un raggio malizioso, che ondeggiò sui suoi occhi, la fece riprendere da quello stordimento e subito pensò di tornare in ufficio. Nessuno si era accorto della sua assenza e si mise seriamente al lavoro: voleva guadagnarsi il piccolo stipendio e sperava di mantenere quel posto il più a lungo possibile. Il suo era un lavoro appassionante. In fondo la matematica, come la poesia, ha le sue espressioni: le parentesi, come le parole, non vanno a zonzo e si devono risolvere ordinatamente, togliendo prima quelle tonde, poi quelle quadre e, solo dopo le graffe, la verità, finalmente, salta fuori. Quando trovò la soluzione, si accorse che ormai era ora di uscire. Dopotutto, si sentiva la coscienza a posto: il tempo perso per il concerto, lo aveva recuperato, grazie alla sua prontezza e alla sua abilità nel lavoro.

Mentre tornava a casa promise a se stessa che avrebbe centellinato il suo tempo, facendo attenzione a non richiamare quei ricordi che diventavano parole invadenti e le facevano perdere, inutilmente, contatto con la realtà. Ringraziò il cielo di vivere in una città che si vestiva di nuovo tutti i giorni, senza strafare, con la solita umiltà. Da un po’ di tempo, però, doveva ammettere che qualcosa era cambiato.

Le campane della chiesa di Santa Maria in Trastevere assorbirono per un momento l’aria.

- Non cambierete questa città – mormorò sorridendo Rebecca – non cambierete i romani.

Intanto il cielo si avviava ai colori del tramonto e stava restituendo lentamente tutto quello che aveva assorbito durante il giorno: il respiro affannoso delle vie percorse da mezzi incuranti della storia di Roma, i pettegolezzi e i frammenti di frasi che imprecavano contro il traffico. Rebecca continuava a pensare a quella luce dorata, a quel raggio di sole che era entrato nella stanza al risveglio pomeridiano, che aveva la stessa intensità di quando aveva incontrato lui. Quella volta la luce aveva camminato sui capelli di un ragazzo che andava in solitudine su Viale Aventino. Lei subito aveva pensato che doveva, a tutti i costi, trovare il modo di parlargli: niente di più facile in un’epoca in cui non era un problema attaccare discorso con l’altro sesso.

- Come sei bello! Come ti chiami? – le aveva chiesto con noncuranza

Lui, sorridendo, aveva pronunciato il suo nome, che però risultava incomprensibile, ma lo aveva detto di nuovo, perché lo sguardo di Rebecca non lasciava spazio ai dubbi.

- Abdel Salam, servo della pace, mi chiamo.

- Io sono Re-be-cca

- Non sillabare – le aveva detto – capisco benissimo l’italiano

- E lo parli anche molto bene!

Era iniziata così una bella storia d’amore, anche se la gentilezza e i modi garbati di Abdel qualche volta si scontravano con l’impazienza di lei.

Rebecca si era innamorata di quel raggio di sole, voleva scaldarsi e tanto era il desiderio che, quando si addormentava, sognava abbracci e carezze e al risveglio gli occhi conservavano la gioia di quei momenti e si aprivano a fatica. Quel raggio aveva avuto una grande responsabilità, che non si limitava alla nascita di quel sentimento, perché lei ci aveva costruito una storia importante, modificando le sue abitudini e chiedendo solidarietà alla sua città. Nulla era più bello del sentire sbocciare il giorno e subito individuare la sua presenza, sempre lì in quella strada, con il sole tra i capelli, il profumo del suo dopobarba, le sue mani, le sue dita per suonare l’amore, che prima o poi anche lui, ne era certa, avrebbe provato.

Il dono che aveva avuto era grande e impegnativo e scorreva impetuoso come il Tevere al mare.

Non era mai stata così innamorata. Abdel Salam si mostrava attento e premuroso, le cingeva le spalle, ma non le aveva ancora dato quel bacio che Rebecca sognava.

- Ci vuole un incoraggiamento – aveva pensato – forse è timido. Lo farò sedere nella panchina del raggio di sole…

E su quella panchina il gelato si scioglieva come le parole che fruivano lente e sicure dalle labbra di Abdel.

- Sai Rebecca? Molti anni fa, in una mattina come tante, mio padre salutò la sua famiglia.

- Io vado – disse – non posso restare in un paese che sta ancora aspettando la creazione del mondo. Ci fosse almeno l’erba, l’acqua, ma non c’è nulla da guardare.

- Si avviò per strade polverose, poi attraverso traiettorie che forse non si aspettava, giunse in Italia. Ha sempre tenuto, vivo in me, il ricordo del suo lontano Paese, ma non ha mai voluto tornarci. Ho ritrovato qualche foto dei nonni e di altri parenti in un cassetto del suo comodino, ma non ha mai avuto nostalgia del passato. Ripeteva spesso che non si può rimpiangere il nulla, ma si deve avere riconoscenza per la terra che ti accoglie e ti offre una vita dignitosa. Sai? Andava a comprare il pane in quel negozio che si trova proprio alle spalle di questo viale, in via Manlio Torquato e lì la commessa dagli occhi celesti lo fece innamorare. Mille e mille volte si perdeva in questa favola. Raccontò che per un bel po’ si erano parlati con gli sguardi e quando pagava tratteneva la mano di Giulia più del necessario. Lei arrossiva e ricambiava la stretta: le sorridevano gli occhi e la bocca, ma, nonostante questi precisi messaggi, lui non osava chiederle un appuntamento. Restò disorientato quando Giulia le disse che voleva conoscerlo meglio. Ovviamente prese al volo l’invito e balbettò qualcosa che somigliava ad un sì certo. Ecco fu proprio mia madre a prendere l’iniziativa.

- Come dovrò fare io – pensò in un nano secondo Rebecca – Abdel è timido come il suo papà. Ma forse non è bello approfittare del suo racconto familiare, aspetterò qualche giorno.

Intanto aveva preso le sue mani e si alzarono lentamente dalla panchina per avviarsi alla fermata dell’autobus. Lì avrebbero dovuto salutarsi perché andavano in direzioni opposte. Erano silenziosi e la strada più rumorosa del solito non favoriva il dialogo, anzi metteva in disordine anche i pensieri. C’era molta tensione, uno dei due prima o poi doveva insinuarsi nelle parole e tornare all’armonia del primo pomeriggio. Rebecca stoppò il passo e lo fissò decisa.

- Ti amo – gli disse

- Io ti voglio molto bene – rispose Abdel con una voce che non sembrava la sua – ma non posso amarti, sono già impegnato. Ci vediamo domani al solito posto.

- Ci vediamo domani al solito posto? Ma io non voglio conoscere la tua ragazza: sarà certamente bella, alta, giovanissima, tutto quello che non sono io. Mannaggia a me e a quando ti ho incontrato!

Questi erano i pensieri che assorbivano Rebecca. Intanto era arrivata a casa e senza sapere come e perché si ritrovò sul divano con la sensazione di vivere il seguito di un sogno che non voleva fare.

Si alzò, perché l’unica cosa che poteva obliterare i suoi pensieri era preparare da mangiare: un bel panino, pomodoro, sale, olio e un bicchiere con tante bianche bollicine. Quella sarebbe stata una buona occasione per fumare una sigaretta, ma ormai non fumava più da tempo e meno male, perché certamente non si sarebbe fermata alla prima. Trascorse la serata con il solito pensiero fisso e riuscì a prendere sonno tardissimo. Al risveglio provò subito un sottile dolore e senza entusiasmo si preparò per uscire. Malgrado l’amore viscerale per quella città, non trovava un motivo valido per avventurarsi nelle sue strade già imbottigliate dal traffico.

I colleghi riconobbero in lei la tristezza di chi sta vivendo una situazione delicata e difficile e si limitarono ad un buongiorno e all’offerta di un caffè. Aveva voglia di solitudine, questa volta rinchiudersi aveva davvero un senso. Pensava che la storia con Abdel, anche se nata con il sole, era nata male, perché spesso il sole sfoca le immagini e offusca la realtà: era stata scritta a matita e si poteva cancellare facilmente.

- Sì… facilmente!

Aveva pensato di non andare, per non ferirsi, ma il desiderio di rivederlo spinse i suoi passi al luogo dell’appuntamento. Arrivò con grande anticipo, la panchina era libera. Cominciò a guardare, come se fosse la prima volta, il viale che scivolava verso l’estate: c’era una ragazza che spingeva sorridendo un passeggino e poco più in là un tizio in bicicletta che portava al guinzaglio il suo cane per farlo correre.

- Tutta salute per il mio Rico – le urlò

E lei sorrise, pensando al suo Oscar un gatto davvero fuori dal comune.

Si sorprese piacevolmente di riuscire a sorridere e proprio in quel momento il suo cuore cominciò a battere furiosamente: Abdel si stava avvicinando con accanto qualcuno che il sole non le permetteva di individuare bene.

- Ciao Rebecca, ti presento la persona che amo.

- Piacere, Marco.

Il sole era alto e rendeva limpida ogni cosa come in quei giorni nei quali anche se nulla va storto, il dolore rimane e vorremmo fare di una coperta il nostro bozzolo.

Così si sentiva Rebecca: l’accolsero tra loro e la presero per mano, asciugando a turno le sue lacrime. In una trattoria si abbuffarono di pizza e supplì e bevvero bianche bollicine frizzanti, promettendo di raccontare quello che era successo, perché quando si racconta, una storia del genere diventa più vera.

Una giornata che sembrava partire da lontano e non finire mai, era invece passata e le aveva regalato momenti che le sembrava di avere vissuto come semplice spettatrice. Avrebbe voluto respirare profondamente, mentre pensava a come cancellare una storia d’amore mai iniziata. Abdel e Marco si erano accorti del suo stupore? Ad ogni istante il dolore si faceva più acuto, aveva capito perché Abdel si fermava alle gentilezze e alle premure: amava un’altra persona.

Invece di prendere l’ascensore, salì lentamente le scale.

- Questo dolore è come l’aria, non lo posso evitare – si disse a voce alta

Ma ad ogni gradino il ricordo della serata le strappava un sorriso sempre più convinto.

 

Carla De Angelis