Con la scusa dei cani!

La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano le 5.30 e la sua camera da letto era inondata da una luce dorata come solo l’alba della sua città sapeva creare.*

Già, la sua città. Un ammasso disordinato di case bianche e gialle con le persiane blu. Blu anche il mare che lambiva la passeggiata da un capo all'altro della città, prima e dopo nulla: sterrati e discariche, l'imbocco dell'autostrada. Nessun buon motivo per venirci a stare, in quella città, se non un lavoro più o meno correttamente retribuito. Da quando il porto era stato riconvertito a scalo crocieristico, infatti, il lavoro non mancava. C'era solo da alzarsi presto e mettersi addosso qualcosa di blu: maglioncino con scollo a vu e pantaloni di cotone; la polo bianca. I vestiti erano preparati ai piedi del letto dalla sera prima. Non lasciava mai suonare a lungo la sveglia, anzi si alzava sempre prima che suonasse, il più delle volte. Sceso dal letto, sentì il conforto del pavimento finto veneziano, mai veramente fresco in quei giorni d’estate. Il passo al cucinotto fu breve, la caffettiera già pronta. La sua colazione non era mai frugale perché aveva sempre una gran fame di prima mattina e il pensiero di darsi un'alimentazione adeguata al fabbisogno. Doveva stare sottobordo alle sette e il pranzo non era incluso nel tour. Avrebbe camminato per ore sotto il sole estivo, ringraziando il cielo per l'ombra delle gallerie e di qualche albero, perciò doveva prima di tutto idratarsi e naturalmente assumere una buona combinazione di vitamine e fibre. E poi non aveva nessuna intenzione di mettere piede in uno di quei ristobar per turisti. Meglio approfittare della pausa pranzo per starsene in disparte, quanto più possibile lontano dai capannelli, che tanto sarebbe durata un'ora scarsa. Dopodiché avrebbe ripreso la testa o la coda del cordone di gente attraverso lo spazio urbano, senza mai confondersi coi superstiti abitanti del luogo. Sani e salvi avrebbe ricondotto tutti al porto, ma solo a fine giornata. Doveva ancora cominciare quel giorno. Presto la doccia e la barba; né tempo né voglia di farsi il contropelo.

Non avrebbe rinunciato solo a un altro caffè del bar, non uno qualunque, ma un bar del centro dove qualcuno lo salutava e gli chiedeva: “Come stai?” Quel genere di domande che fanno piacere, specie se rivolte a una distanza ravvicinata da persone in carne e ossa, non al telefono da qualche parente alla lontana, peraltro qualcuno che non ti conosce abbastanza da sapere di quel tuo malessere, insomma qualcuno che sappia aspettare di sentirsi dire che “Sì, stai bene”. Anche se l'alta stagione era appena cominciata e di quelle levatacce ne avrebbe avuto per cinque giorni su sette per altri quattro mesi, le battute del supervisore non lo facevano ridere e quelle degli autisti di bus andavano appena meglio, con i turisti a fare sempre le stesse domande e le solite rimostranze. Tutti a voler fare il giro completo della città d'arte in cinque ore, cattedrale e musei compresi. Lui avrebbe seguito il gruppo per le strade di quella città ostentando padronanza dei luoghi oltre che della lingua straniera, affabile accompagnatore turistico. Era già uscito. Si accorse di aver dimenticato l'orologio, ma poco male perché sentiva il cellulare pesargli in tasca.

- Che ora è?

A passo svelto, il porto stava pur sempre dall’altra parte della sua città e per raggiungerlo a piedi ce ne voleva, così camminò finché s'avvide dei cani per strada. Aveva una paura esagerata dei randagi e quelli, tre insieme, gli sembrarono un branco spaventoso, perciò cambiò strada. Le strade erano tutte così piccole e strette nel centro, lastricate di pietra bruna e lucida, e il sole vi rimbalzava dai muri chiari e ruvidi in un effetto abbacinante. Finì per perdersi in quei vicoli che non conosceva per pigrizia, non avendo mai osato spingersi addentro. Sperava, finalmente, di ritrovare l'insegna del bar spuntare fra gli infissi di alluminio anodizzato. Ma tutto quanto intorno non era che porte chiuse e finestre sbarrate, saracinesche abbassate. Parecchio strano per l'ora del mattino in cui quell'area pedonale era solitamente battuta dai portuali. Ma di un uomo neanche l'ombra. Solo quei tre facevano capolino agli incroci delle viuzze che stava imboccando alla cieca. Non abbaiavano né mostravano i denti né altri segni di ostilità. Eppure n'era intimorito, da sempre, cioè da quando era piccolo e un randagio era entrato nell’auto del nonno, un giorno che aveva lasciato aperto lo sportello nell’andare ad aprire il cancello di casa e lui era rimasto seduto dietro, di pietra. Quel giorno ebbe, dentro di sé, la riprova che i cani sono pericolosi e non chiedono il permesso se vogliono entrarti in macchina o peggio in casa, insomma nella tua vita, così. Ed era di nessun valore l'argomento che, alla fine, quel vecchio pastore non gli aveva fatto alcun male e se n'era pure preso le pallettate. Adesso, invece, non c'era niente e nessuno a difenderlo dalla minaccia canina. Non era certo sconsiderato da tirargli contro delle pietre, né aveva il coraggio di cercare rifugio nelle case, così seguitò a zizzagare per il centro.

Di stradina in stradina si era ficcato in un vicolo cieco. Il cuore gli batteva a duemila, convinto di vivere gli ultimi istanti della sua vita. Si detestava per questo, e non che avesse la lucidità di fare un bilancio esistenziale qualsiasi. Semplicemente, e tutto in una volta, maledisse il giorno in cui, tre anni prima, aveva rifiutato di trasferirsi in un'altra città per lavoro. Ma chi o cosa non gliel’aveva fatto fare? I suoi amici storici, forse, con la promessa di un'altra sigaretta fumata in confidenza sul balcone della cucina; quella ragazza, con il suo profumo leggendario, svanita un giorno in partenza per l'università; la madre vedova, che pure non gli aveva mai chiesto niente. A quell'ora, probabilmente, si era da poco svegliata e stava già pensando a lui dalla sponda del letto. Uscendo dalla sua stanza l'aveva guardata per un attimo attraverso lo spiraglio della porta schiusa, dormiva ancora.

- Che piacere non sentire i propri passi attraverso casa mentre qualcuno sta dormendo – pensò – fa sentire leggeri e opportuni, specie se si esce per andare a lavoro.

Si rendeva conto che stava facendo tardi e che il muro davanti a sé era insormontabile, tanto valeva dargli le spalle e rivolgersi ai cani. Tutti e tre, in ordine sparso, gli si avvicinarono seguendo traiettorie curvilinee, e questo loro apparente disorientamento lo rincuorò. Cosa potevano mai volere da lui? Non aveva mai fatto male a una mosca e, anche rivangando l'esecuzione di quel cane nell'auto del nonno, comunque gli spiaceva apprendere di qualsiasi abuso verso ogni cosa o persona. Doveva pur essere evidente a quei cani, l'inoffensività sua: un quasi-amore per il creato. Naturalmente lo annusarono. Sentiva spandersi dai pori il sudore bagnato sull'attaccatura dei capelli e sotto le ascelle, in gocce che s'ingrossavano lungo il collo e il torso fino ad appiccicargli la polo addosso. Uno dei tre gli sfiorò la mano con la lingua mentre degli altri poteva chiaramente avvertire i tocchi del muso. Così, immobilizzato, si lasciò circondare e gli lasciò fare il loro traffico di cani. Per un attimo gli sembrò che almeno le gambe avessero smesso di tremare, quindi s’inginocchiò.

- Mi farete fare tardi. – disse.

Al che si sentì guardato di traverso da due su tre, quindi si concentrò sul terzo, sperando che almeno uno volesse indulgere benevolente.

- Che c’è? – proferì con un filo di voce.

Per tutta risposta quelli si girarono incamminandosi dall’altra parte, senza nessuna fretta. Lì per lì li avrebbe presi a sassate, attaccandoli da dietro, come il peggiore dei traditori.

- Ma come? – gridò rimettendosi in piedi – Prima mi venite dietro, poi praticamente addosso, e adesso ve ne andate così? Fifoni… Cani!

Uno su tre lo guardò con la coda dell’occhio, mentre un altro scodinzolava compiaciuto, e tutti riprendevano a disegnare curve per la strada che si stava allontanando da lui. Ma dov’era? Che ora era? E soprattutto, che importanza aveva tutto ciò? Sentiva che quei tre gli dovevano una spiegazione, una qualunque, così fece per andargli dietro. Era ormai in ritardo. Se non altro potevano riportarlo a qualche punto di riferimento che gli facesse riconoscere la città. Ma gli bastò perderli di vista per un attimo per non vederli più. Fu nel mezzo di un crocevia e pensò che ognuna di quelle strade valeva esattamente l’altra. Si fermò e si rese conto che il suo cuore era tornato a battere normalmente, le gambe stabili. Prese il telefono e lo spense, prima che lo chiamassero dal porto. Si rese conto che non avrebbe osato quel gesto per molto, molto tempo. Ogni giorno dei mesi seguenti avrebbe aspettato una telefonata che gli offrisse un altro guadagno per il giorno dopo. Neanche la notte spegneva più il telefonino, da quando sua sorella si era trasferita dall’altra parte del mondo. Glielo andava dicendo da un po’ di lasciare tutto, cioè non molto, e raggiungerla da quella parte dove non mancavano le opportunità se solo si ha la lingua (e lui ce l’aveva). Per dire cosa, poi, se lo chiedeva ogni volta che scorreva le pagine di appunti su quel posto troppo lontano da sua madre, che pure non gli aveva mai chiesto niente. Si sentì solo e sbagliato. La sua città gli dava pur sempre una certa sicurezza.

Adesso doveva prendersi il tempo per pensare una scusa da raccontare ad Angelita per giustificare il ritardo o, forse, l’assenza. Sì, insomma, considerò che era veramente troppo tardi per presentarsi al porto, o forse no. Ma tanto valeva prendersi il giorno come non avrebbe più fatto per chissà quanto. Ecco, il lungomare. Il tratto più bello di quella città di provincia votata suo malgrado a scalo turistico. Scelse a caso uno dei tanti tavolini all’aperto dei troppi bar allineati sulla passeggiata, si sedette solo per un minuto, ma subito si rialzò pensando a quanto sconsiderato era sedersi a pochi metri dal porto. Qualche membro dello staff avrebbe potuto riconoscerlo e metterlo nei guai. Si disse che non voleva rendere conto a nessuno, almeno per un’ora. Così si scelse un altro posto, meno esposto, e chiese al barista un caffè lungo. Quale scusa poteva suonare plausibile? Si vergognava a raccontare quel brutto incontro del mattino. Doveva giocarsi la carta del cellulare spento, quello sì che era un appiglio per inventarsi qualcosa.

- Scusa? - disse al barista che gli presentò il caffè davanti.

- Dica.

- Scusa se ti do del tu, ma avrei bisogno di un consiglio e solo tu, forse, mi puoi dire…

- Che cosa?

- Voglio dire che anche tu hai l’abitudine di svegliarti presto, no? Ti sarà capitato un giorno di avere avuto un contrattempo per cui non sei più arrivato al lavoro…

- Mai, in dodici anni, mai. Perché?

- A me è capitato stamattina. E adesso devo inventarmi una scusa, ma non chiedermi il perché.

- Bello mio, metti in mezzo la suocera o tua madre, funziona sempre.

- Sì, grazie, non ci aveva pensato. – disse poco convinto e salutò per andarsene.

Ci aveva pensato, eccome, ma gli sembrò disonesto scomodare sua madre. E una suocera non ce l’aveva, era risaputo al porto. E poi, cosa avrebbe potuto giustificare il telefonino spento? Un guasto, forse, ma oramai la giornata era persa. Non riusciva a sgombrare la mente da pensieri di questo tipo, neanche a godersi quel bellissimo giorno di sole. Passò l’ora seguente aggirandosi per le strade meno frequentate della città in cerca di qualcosa. Forse erano i cani oppure una spiegazione per quel giorno cominciato male. Se non avesse provato a sviarli, forse, quelli non l’avrebbero seguito. Perché cambiare strada quando sai bene da dove vieni e sai pure dove stai andando? Dritto per la tua, si raccomandava suo padre. Ma trovò pace solo alla vista di un muro a buccia d’arancia contro cui prese a sfregarsi una mano, dorso e palmo, insistendo sulle nocche, giusto per farsi sanguinare un tantino, poi tutto il braccio, quindi si strappò la manica dallo stesso lato. Infine si rotolò un po’ per terra. Con la mano escoriata e bruciante riaccese il telefonino, che non tardò a notificargli le chiamate perse, poi gli squilli.

- Sì, ciao Angelita. Scusami, davvero, ma non sai che mi è successo. Vengo lì e ti racconto. Terribile, dei cani. Arrivo.


Alessandro Di Mauro

*Incipit tratto da Se solo fosse vero di Marc Levy