E' un sogno?

All’uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto…*

All’incrocio della via Portuense con via di Casetta Mattei c’è un semaforo che per fortuna quando arrivo a bordo della mia bella automobile, si fa rosso. Nell’attesa poso sempre lo sguardo su una costruzione disabitata, un po’ malandata e mi vedo in quel locale a plasmare la creta. Una grande vetrina e io che all’interno lavoro con gli allievi: la gente che passa si ferma a guardare, poi entra e io spiego mentre continuo il lavoro. Ma intanto il semaforo diventa verde e vado via fino al prossimo film. L’intera zona dove abito prende in prestito nomi di città e paesi del Piemonte, dove abitavo prima erano nomi di paesi e città della Toscana: la geografia mi fa compagnia.

Mentre guido pregusto la scena finale di questa giornata. Apro la porta e, senza aspettare, mangio la prima cosa che mi capita, anche se non ho fame: è il rientro a casa lo prevede. Poi mi distendo sul divano e chiudo gli occhi per sognare. Mi ritrovo in un piccolo paese, ma così piccolo che in quindici minuti lo visito tre volte: allora mi avvio all’uscita e ho di fronte tre strade: una verso il mare, la seconda verso la città e la terza non va in nessun posto. Troppo facile andare in nessun posto e scoprire tutte le novità del nulla. Ci penso un po’, il mare mi attira, io vengo dal mare, ma questo lo so, voglio tentare la seconda strada e incontrare gente. Mi avvio e invece delle persone trovo la strada piena di libri: che spavento! Non so cosa dire, eccomi in cerca di un linguaggio appropriato, mentre i passi si impantanano nelle parole che cadono a riempire la strada: vocali tonde e grasse, oppure magre e alte, consonanti lente e impacciate, punti esclamativi e interrogativi.

Continuano a cadere e la strada diventa collina e poi montagna e mi trovo in cima alla cultura, pur restando analfabeta. Il sole si diverte a scaldarmi il corpo e la mente, lo prego con tutta me stessa di darmi un po’ di tregua – Non hai la pausa pranzo? – gli grido, ma i suoi raggi sono sempre più forti, mi pare di sentirlo ridere. Mi arrendo e cerco di uscire dal sogno, ma le parole mi hanno circondato. Ecco cosa succede quando si lascia la strada vecchia per la nuova: dovevo andare al mare e fluttuare senza radici, qui sono imprigionata, ostaggio delle parole. Alcuni le prendono a prestito, poi a seconda della convenienza accusano gli altri di non capire. C’era in particolare uno che negava di aver detto. Che confusione! Sudavo anche se mi ripetevo – sta tranquilla è un sogno!

Le parole sono strumenti, sono un seme che si getta per creare conseguenze e testimonianza e chi le usa male sarà smascherato e punito, almeno spero.

Oscar mi fa solletico sulla guancia con i suoi baffetti da gatto, così apro gli occhi mentre lui mi fa strada verso la camera da letto e, con un solo sguardo, mi fa capire che prima di uscire completamente dal sogno devo prendere un libro.

Senza scegliere prendo quello che potrò portare con me nella borsa più facilmente possibile: Oscar approva, ma è impaziente perché vuole sdraiarsi in fondo al letto. Guardo il titolo: “Il gabbiano Jonathan Livingston” è un libro che conosco. Lo rileggerò volentieri e con l’esperienza degli anni sicuramente coglierò altro, riportando alla luce anche quello che ho nascosto in me. Troverò nuove verità. La notte scorre tranquilla, ho detto ai sogni di non venirmi a trovare, voglio il buio e l’assenza. Alla prima luce mi sveglio e sento tra le mani il libro: non ricordo nulla, è sempre così quando non sogno e faccio una grande fatica a mettere in chiaro che giorno è e dove sono.

Facciamo colazione, io sul divano e Oscar in terra con la sua ciotolina. Dalla finestra guardo la mia macchina rossa: ci sono gocce d’acqua che il primo sole fa scendere leggere sulla terra, mentre il tempo inizia a mangiarsi un’altra giornata.

Non ho ancora voglia di rimettermi in macchina, nessuna voglia di essere me: vorrei camminare all’ombra dell’automobile e invece eccomi dentro a guidare, cambiando le marce.

- Non sapresti usare il cambio automatico! – dice sempre mio marito.

E’ vero, sa che mi addormenterei, senza cambiare le marce.

Prima, seconda, terza, quarta, quinta… e poi daccapo! Lo trovo meraviglioso e così inizio a cantare: tiro giù il parasole e vado, anche se il motore qualche volta si lamenta.

D’improvviso una nuvola bagna le strade con un impeto che somiglia a un pianto disperato: vorrei fermarmi per consolare ogni goccia, ma il traffico scorre veloce e poco più in là uno spiraglio di sole toglie l’ombra ai miei pensieri. Rifletto a quanto volte passiamo davanti a chi ci chiede aiuto, ma presi come siamo dal ritmo che ormai ci siamo imposti non facciamo in tempo a capire. Voglio ritrovare quella nuvola, ci sono quartieri a Roma dove piove pochissimo e la terra si spacca.

- A Roma? – da sempre sono costretta a convivere con una vocina che mi contraddice o mi prospetta un’altra soluzione.

- Non ti ricordi le ferite imposte dal sole quest’estate? – rispondo

- E tu non pensi alle persone costrette a lavarsi con un bicchiere d’acqua eccetera, eccetera?

- Taci, riesci sempre a rovinarmi tutto!

Però ha ragione. Farò in modo di ritrovare quella nuvola e le proporrò un patto: avrà la mia comprensione se andrà a piangere dove io le dirò.

Che pensiero buffo, che pretesa: a pensarci bene ci vorrebbe la bacchetta magica, bisognerebbe arrivare a comprendere la nostra missione come il gabbiano Jonathan Livingston. Stasera rileggerò il libro e lascerò la porta aperta ai sogni.

Questa seconda strada inizia a piacermi: è sempre piena di libri, che mi accolgono con calma, quasi a compensarmi della frenesia della notte precedente. Ogni parola è al suo posto, capisco subito che sarà un sogno facile. Questa notte decideranno le parole e si affaccia anche la nuvola che ormai si è aggiunta alla mia vocina.

- Sogno facile?

Forse ha ragione, qui si prepara un grosso pasticcio: le parole, la vocina, la nuvola!!!

Coraggiosamente mi sistemo dietro le quinte e aspetto che lo spettacolo inizi: mi pare di sentire il  gabbiano che inutilmente spiega ai suoi simili che la vita non è solo cercare il cibo e sfamarsi.

L’attesa è breve, mi accorgo che l’unico sistema possibile per salvare la mia strada è fare ordine… Troppe caselle, quale spuntare? Non si era detto di fare pulizia per capire bene quello che volevo?

Le conseguenze potrebbero essere disastrose e per giunta il risultato è zero. Non deve esserci una massiccia quantità di parole, perché porterebbero inconsciamente alla morte della seconda strada.

Questo pensiero si fa concreto e allora mi affanno a sistemare ogni cosa al suo posto.

- Non illuderti, è stato solo un bagliore, che per un momento ti ha fatto credere che tutto si possa sistemare in breve tempo.

- Di nuovo tu?

- Ascolta, quando vedi quel bagliore, siediti e osserva: sii vigile, non ti addormentare, la strada scorre senza che sia tu ad anticiparla. In un vicolo, o in una piazza scoprirai e conquisterai il motivo  della tua vita. E mi raccomando, continua a leggere Il gabbiano Jonathan Livingston.

- Sai, mi sarebbe piaciuto incontrare sulla via qualche persona per condividere le parole.

E’ strano, ci sono poche panchine per fermarsi a riposare e l’asfalto è bianco, ma dagli alberi pendono gessi e matite colorate, che invitano a scrivere o a disegnare. Non so disegnare, sto ora imparando a scrivere, così per non sbagliare faccio solo delle frecce e accentuo le mie orme: è un  invito per gli abitanti degli alberi ad uscire fuori senza timore. La nuvola mi segue, per fortuna non parla e non lascia cadere una goccia. Sento che il tempo del sonno sta per scadere: per questa notte non riuscirò a percorrere tutta la strada, a fare amicizia con i suoi abitanti e a capire se l’amore può bastare, se l’amicizia e l’onestà possono bastare, o se per vivere serve ancora altro.

Si impara leggendo? Stando in solitudine? Oppure bisogna confrontarsi con gli altri?

La luce del giorno filtra attraverso gli occhi e solletica il sonno: per un po’ lottano ad armi pari, poi sopraggiunge Oscar, così il giorno vince, ma io sono in tempo per chiedere al sogno di tornare un’altra notte.

E’ un risveglio allegro, dico ad Oscar che il mondo lo aspetta, così mi guadagno i suoi occhi dolci e i suoi versi da grande poeta. L’allegria non passa, anche se il cielo è oscuro. Si sa che mi piacciono le nuvole ed una in particolare. Devo trovare qualcuno a cui raccontare la mia storia, certo apparirà incredibile, ma quando mai la verità è facile da credere?

La sosta al semaforo è davvero lunga, suono il clacson e faccio capire al conducente della macchina accanto che ho qualcosa da dire. Gentilmente apre subito il finestrino.

- Signore, che rapporto ha con i sogni?

- Boooooh!

- Per me sono a puntate, quando voglio proseguo il sogno della notte precedente, oppure chiudo la porta e dormo al buio.

Si sforzava di sembrare interessato, ma io capivo dall’espressione del suo viso, che non gliene importava nulla e forse pensava di trovarsi di lato una persona non proprio a posto. Mi dava ragione, certo, ma era per troncare la conversazione. Il fatto è che sul libro c’è scritto che è un dovere, per chi sa, insegnare agli altri che la vita non è solo procacciarsi da mangiare.

Al verde del semaforo, senza nemmeno chiudere il finestrino, accelera per filare via. Dovevo aspettarmelo, non è concesso a tutti camminare in una strada tutta bianca piena di libri e incontrare una nuvola disposta a piovere dove più serve.

La prossima volta dovrò scegliere il mio interlocutore, certamente non uno che risponde Boooooh!

La colpa è mia non dovevo continuare a parlare: non dovrò più parlare, ma cantare! Tanto con i finestrini chiusi penseranno che parlo al cellulare e non correrò il rischio di prima.

Eccomi in uno di quei negozi strani che vendono l’usato, un po’ di tutto. Mi colpiscono i colori, annuso gli abiti per capire i pensieri di chi li indossava e scegliere in quali panni mettermi. Ecco un cappellino con le piume, quasi trasparenti, piacerebbe a Jonathan. La ragazza del negozio mi guarda e sorride, un filo corre da lei a me, da me a lei. Le racconto tutto.

- Sei stata fortunata – mi dice – vorrei entrare nella tua magia.

- Questa notte ti mando in sogno il mio gabbiano e un’altra nuvola: faremo in modo che più parti del mondo abbiano l’acqua. Dobbiamo proiettare le nostra aspettative verso una meta che sta sempre oltre, irraggiungibile. Sai quella strada è piena di libri e il suo cammino è una continua evoluzione, una ricerca che non finirà mai.

Esco dal negozio alleggerita al pensiero di dividere il peso della magia con Sara, perché anche le cose belle sono pesanti e difficili da portare. Non voglio perdere un istante di questa ritrovata  tranquillità e mi abbandono all’emozione delle cinque marce e alla soddisfazione di un parcheggio “a regola d’arte”. Ho di fronte un banco pieno di frutta e verdura. Se avessi grandi capacità descrittive vi disegnerei il colore delle fragole e il loro profumo e riuscireste a toccare le foglie croccanti dell’insalata e a sentire il suono della mela che sto mangiando. Era una vera provocazione: non ho resistito, l’ho addentata, ma lei non si è offesa, anzi è compiaciuta e ha continuato a offrirsi sempre più dolce e profumata.

La serenità però si è affievolita con il penultimo morso alla mela. Devo correre a casa e andare incontro alla notte e al sogno. Oscar capirà che questa è una sera particolare e sicuramente si distenderà vicino a me, col musetto sul palmo della mia mano, zitto, zitto.

Improvvisamente mi ricordo della missione che devo compiere.

Inizio a camminare sulla strada bianca. Nell’attesa di incontrare Jonathan, prendo una matita colorata da un albero e scrivo le poche parole che ho imparato, “tu seguita a istruirti sull’amore” e mi affido a loro per giustificare la mia emozione. In fondo alla via, Sara mi fa capire di non poter entrare se non apro la porta.

- Non ci sono porte – le dico

La via continua bianca senza impedimenti. Le vado incontro: le pagine del libro scorrono fino all’ultima.

- Non essere egoista – mi suggerisce la vocina – non tenere tutto per te, dona le tue sensazioni

- Ma è quello che sto facendo!

- Solo a parole, non basta! Devi abituarti a non temere di dare: è un esercizio che ti regalerà grandi soddisfazioni!

Vorrei sedermi e ascoltare il silenzio che si insinua tra me e il gabbiano, tra me e la nuvola. Vorrei mi fosse di conforto non scoprirmi egoista. Riprendo la strada, il sorriso di Sara mi contagia, sorrido anche io, mentre le braccia si allargano in una stretta spontanea. La nuvola ci saluta.

- Prometti di bagnare le terre aride – le dico – di portare sollievo ai popoli affamati dalla mancanza di acqua.

- Lo farò, ma butterò grandine sopra tutte le teste boriose che abusano delle parole e mistificano la realtà.

Nella seconda strada piovono di nuovo parole e Jonathan è rientrato tra le pagine del libro. Forse la verità non esiste, ci sfiora, ci cammina accanto, ma è difficile prenderla sotto braccio una volta per tutte. Devo trovare un equilibrio tra la vita e il sogno. La magia ora è passata a Sara ed io mi sveglio con il libro tra le mani.

- Come fai ad amare tutta la gente?

- Bisogna esercitarsi a vedere la bontà che c’è in ognuno!

- Per te gabbiano Jonathan è facile perché voli alto, ma per noi che calpestiamo la terra e spesso guardiamo solo i nostri passi è una impresa ardua.

- Guarda, gli abitanti sono usciti a raccogliere le parole, in loro non ci sono sorrisi tirati o gesti circospetti e alcuni prendono i gessetti dagli alberi per annotare le frasi più belle. Si tengono per mano senza paura di scoprire quello che sono, sgranando il tempo che ha dato loro la sorte.

- Ho visto, ora non ho più bisogno che qualcuno riconosca nelle rughe e nei lineamenti che il tempo ha cambiato, quello che ero, il rossore che avvampava le guance, i sogni che avevo e quelli che grazie a te ho ritrovato.

 

Carla De Angelis

*incipit tratto da "Le favole al telefono" di Gianni Rodari