Fernanda

A quattro anni Fernanda era una bambina felice, paffutella e ignara, mai  sazia d’aria  e di giochi all’ aperto.

I suoi spazi erano vasti, talmente vasti che a malapena mamma Teresa riusciva a darle la colazione  la mattina appena sveglia.  Subito  fuggiva  fuori, a dare la prima carezza ai suoi cani neri che la aspettavano per correre con lei,  anche loro mai stanchi di saltare e giocare.  Erano i suoi veri compagni di gioco, non sopportava gli scherzi tremendi dei suoi fratelli e  cercava scampo nell’andare più lontano possibile. Aveva anche una sorellina nata da poco che si chiamava Clara, ma con lei non si poteva giocare, era piccola come una bambola!

C’era un mondo da esplorare.

Quando si inoltrava nel grande orto, trovava sempre le donne che lavoravano.

-Vieni piccola – la chiamavano- vieni a darci un bacio,  poi ci aiuti a raccogliere i fagiolini!-

Era la cocca di tutte – lei non lo sapeva ancora, ma era la figlia del padrone – e la lasciavano trafficare in mezzo a loro senza sgridarla e Fernanda per un po’ le aiutava, poi la voglia di correre prendeva il sopravvento e scappava altrove.

Oltre il recinto dei maiali, dove non osava avvicinarsi più di tanto perché temeva la sgridata di suo padre,  c’era  il recinto delle mucche, che la attirava ancor di più. Le facevano un po’ paura, così grandi e non certo affettuose come Nero e Cesare, ma si fermava a guardarle affascinate. Quando poi c’era il vitellino, sarebbe rimasta a osservarlo per ore, se il richiamo vagamente minaccioso di quelli di casa non l’avesse scossa.

Il vaccaro era un vecchio rugoso e brontolone, che  nutriva un ruvido affetto per la bambina e le regalava sempre un bicchiere di latte appena munto, che Fernanda  scolava d’un fiato.

-Se mi vede mamma mi picchia – pensava – chissà perché non vuole, è così buono!-

Ma il momento più felice era quando il suo papà la sollevava sul calesse e la portava a passeggiare.

Era la reginetta del suo papà, che le raccontava di aver atteso per anni una figliola femmina e quando lei era nata aveva fatto una festa tale…che tutti i vicini ne avevano parlato per un pezzo!

Anche le domeniche erano dei momenti di felicità: arrivavano gli zii, e Fernanda aveva nuovi compagni di gioco con cui inventare le esplorazioni più audaci.

Quell’estate del 1918 era tanto calda, e quando il sole picchiava forte era  bello stare con i cugini sotto i grandi alberi a raccontarsi storie, e facevano a gara a chi le sapeva più lunghe e più belle.

Fernanda, la più piccola di tutti, spesso era vittima di scherzi o burle, ma lei era di buon carattere, e se la cavava sempre con una grande risata liberatoria.

* **

Il piccolo mondo di mia madre la proteggeva e l’aiutava a crescere.

I suoi genitori gestivano l’ “Osteria della Vittoria”, a Monteverde Vecchio, nello spazio su Via di Villa Pamphili che ora è occupato da vari servizi della Provincia.

Allora era piena campagna, e più tardi ricordava che dalla loro terra si vedevano, oltre il ponte  bianco sulla ferrovia, le prime fondazioni dell’Ospedale Littorio, oggi San Camillo.

Papà Riccardo era romano, un bell’uomo di quarant’anni con il “nasone dei Callari”, come diceva mia madre, grande lavoratore e vero capo-famiglia, perché i suoi fratelli, Lello e Paolo, erano due deboli, non certo due persone su cui fare affidamento.

Zi’ Lello, come lo chiamava Fernanda, era scapolo, pensava solo alla caccia, e morì pochi anni dopo per una malattia venerea.

Zi’ Paolo era buono e silenzioso, sapeva solo lavorare la terra ed era vittima di una moglie strega che lo cornificava ampiamente. Addirittura il secondo figlio non era suo, ma dell’amante.

L’ho conosciuto, era un bell’uomo alto con la pelle rugosa dei contadini e quando ero bambina veniva spesso a casa nostra. Era mite e silenzioso e mamma gli dava sempre un panino e un bicchiere di vino.  Quando, arrivato alla settantina, ebbe un piccolo malore, la moglie e il figlio lo rinchiusero all’Ospizio Umberto I a Trastevere e dopo pochi anni morì dimenticato da tutti.

Mamma Teresa era romagnola di Montescudo, un micro-paese dietro Rimini, vicino San Marino.

Da bambina, nel 1954, andammo con papà e mamma  a conoscere i suoi cugini romagnoli, avevo sette anni e ricordo vagamente Luigi, Marietta, Enrico, Teresina, tutti figli di una sorella di mia nonna Teresa, ma nessuno ha mai spiegato a mia madre perché e quando sua madre e i suoi genitori fossero venuti a Roma, né se avesse altri fratelli o sorelle.

E’ rimasto questo buco nella storia di Fernanda, e mentre conservava un ricordo vago del papà con i baffi e la carrozzella, non ricordava per niente sua madre. Le dicevano le zie che quando si arrabbiava urlava in romagnolo, ma lei non ricordava neanche il suono della sua voce.

Le zie, altre sorelle di suo padre, erano Amelia e Nina. Le ho conosciute entrambe, sono morte molto anziane negli anni ’70 e mia madre le amava moltissimo.

 

                                                               ***

 

Alla fine del calore estivo si riprendeva fiato, piano piano le occupazioni di tutti i giorni si facevano più volentieri. Si avvicinava il momento dell’asilo e mamma Teresa aveva cucito alla piccola un bel grembiule bianco con un gran fiocco rosa.

La guerra, finalmente stava finendo con la vittoria dell’Italia, ma insieme ai soldati che tornavano un’altra minaccia calava con loro: l’influenza “spagnola”.

Nel delirio della febbre Fernanda non capì nulla, sentiva solo le mani amorevoli della nonna che la accudiva. Quando riuscì a riprendersi abbastanza, i modi circospetti della nonna e il silenzio della casa la insospettirono.

-Mamma- chiamava- ho sete!  - Buona piccolé- rispondeva la nonna- ora ti porto l’acqua-

-ma io voglio mamma!- Nonna Teresa non aveva i coraggio di dire nulla, piangeva in silenzio e si trascinava debole, anche lei reduce dalla spagnola.

In due giorni aveva perso il figlio più caro, la nuora e la nipotina piccola. Non c’era giustizia, ora cosa avrebbe detto a questa creatura di quattro anni? Giovanni ne aveva dodici e si stava riprendendo rapidamente, ma Giulio, che di anni ne aveva sei, aveva preso anche la meningite e lo avevano portato in qualche ospedale di Roma che nonna Teresa non conosceva.

-Come farò con queste tre creature? Sono anziana , chi mi darà la forza?

Qualcuno la forza gliela diede, perché tirò avanti la famiglia per altri cinque anni.

Per Fernanda si aprirono le porte del collegio, dove rimase fino a vent’anni.

Dopo molti anni, quando ero bambina, Fernanda mi raccontava questa storia, ma molte cose rimasero misteriose: la nonna cosa le aveva raccontato? E quando morì anche la nonna, chi l’aiutò a superare quest’altro dolore? Non l’ho mai saputo.  So solo che mia madre era come ingabbiata nella paura e non era in grado di esprimere sentimenti, né di gioia né di dolore. Quando era agitata o arrabbiata gettava tutto sulle spalle mie e di papà, senza rendersi conto di nulla.

 Era rimasta bloccata a quell’estate del 1918

 

Adriana Pieroni                                                             ottobre    1913