Frammenti

Il fiume è gonfio e la sua acqua fangosa, una striscia di plastica fusa. E’ marrone il fiume, ostile e minaccioso. Solo i gabbiani di città, sporchi come l’acqua, ostentano tranquillità su quella superficie densa, color rimorso.

La gente cammina indifferente sul ponte e sembra non accorgersi di avere sotto di sé qualcosa di vivo e fremente.

Reclama rispetto il fiume. E se decidesse, come ha già minacciato, di fare una passeggiata in città, infischiandosene degli alti muri eretti ai suoi fianchi da uomini arroganti e presuntuosi?

Ma non lo farà. Corre, il fiume, tra gorghi e mulinelli. Ha pietà degli uomini sciocchi che lo hanno imbrigliato e sporcato; ha fretta di raggiungere il mare. Povero mare. Chissà cosa si dicono quando si incontrano , il fiume e il mare in quell’eterno mescolarsi di acqua dolce e salata, detriti e porcherie gettate dagli uomini irriverenti e irriconoscenti.

 

A questo pensava Giovanna mentre camminava con passi lenti e senza meta sul piccolo ponte gremito di turisti vocianti.

Una pigra domenica di marzo; l’autobus aveva interrotto la sua corsa un po’ prima del capolinea dove lei era solita scendere. Una coincidenza fortunata: questo le consentì di variare il suo percorso che solitamente, in circostanze simili, era sempre lo stesso.

Roma, un libro e la sua macchina fotografica. Questi gli ingredienti per riempire una solitudine a volte pesante. Ma nonostante spesso scivolasse nella malinconia, Giovanna riusciva sempre ad attingere da sé stessa quelle risorse necessarie a riempire le giornate e la sua mente.

La sua macchina fotografica: a volte qualcuno commentava il fatto che non si aggiornasse, che non volesse accostarsi a tecniche più moderne. La sua Olimpus, tutta manuale, aveva compiuto ormai 30 anni ma era giovane e giovanile come si sentiva Giovanna quando la portava con sé, compagna fedele di sensazioni da fissare sulla carta. Perché amava le foto stampate su carta, amava sfogliare i suoi album – ormai più di cento – che, come dicevano le sue figlie, rappresentavano la storia di una famiglia. “Mamma, dovrai lasciarle in eredità” ridevano. E lei pensava con tristezza a tutte quelle fotografie imprigionate e poi dimenticate nei computer.

Ma i suoi album non erano solo la storia di una famiglia: impigliati tra vacanze in montagna, compleanni e saggi di ginnastica artistica, insinuati tra i coriandoli attaccati insieme alle foto del carnevale, vivono i ricordi delle emozioni, delle delusioni, delle gioie più segrete di Giovanna. Quegli album “sono” Giovanna.

Riflettendosi negli occhi grigi e lontani di un primo piano scattato a chi non avrebbe mai capito la forza della sua passione, ritrovava l’ostilità dello sguardo, la tristezza e la distanza. Si era fissata sulla carta colorata, l’essenza e la condanna di una vita sprecata.

Voltando pagina, un raggio di sole illumina la prima margherita gialla sul suo balcone e tutto riprende vita. I fiori rari, timidi e bellissimi delle piante grasse; le calle candide che da tanti anni vivono sul balcone e, senza chiedere nulla, ogni primavera tornano a sorridere; il piccolo melograno che d’inverno finge di essere morto ma, appena il sole lo scalda, si sveglia con le sue birichine foglioline scure per regalare in seguito rigogliosi e passionali fiori rossi.

Tutto questo fissava sulla carta fotografica Giovanna e tutto questo l’accompagnava racchiuso nello scrigno della sua mente altalenante.

Se avesse potuto scegliere, avrebbe voluto essere un’aquila. Presunzione, forse? Desiderio di superiorità? Pensare a quelle grandi ali spiegate, immaginare di essere immersa nell’aria tersa e limpida delle montagne, le dava un’ebbrezza liberatoria.

Una mattina luminosa, per fotografare i gabbiani sul fiume, si fermò dove non avrebbe dovuto: una frenata, uno schianto e di lei rimasero solo i suoi album di fotografia per chi sapeva leggerli.

 

(Rossana Bonadonna)