Il faro

La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano le 5 e 30 e la sua camera da letto era inondata da una luce dorata come solo l’alba della sua città sapeva creare.*

Ringraziò ancora una volta chi aveva inventato l’ora legale, perché grazie a lui poteva godere, come a tarda sera, del piacere dei raggi, senza patirne il calore cocente, e della voluttà che procurava vedere quell’aurea tinta dipingere le pareti tristi della sua camera da letto.

Sì. Fondamentalmente era triste.

Riprese la sveglia e ne spostò l’orario del segnale acustico avanti di due ore. Si riaddormentò senza pensare al risveglio, che avrebbe posto il solito, angoscioso dilemma: “Vado o dichiaro malattia?”. Sognò.

E si vide remare. Vigorosamente. In un mare che più azzurro di così non poteva essere. Sotto un cielo che mischiava il bianco delle soffici nubi al turchese dell’incarnato atmosferico, fino a formare un morbido letto posato sul soffitto. Non sentiva nostalgia del vecchio faro dismesso che si allontanava. Non avvertiva il dispiacere che un giorno avrebbe provato accorgendosi di non ricordare più le fattezze amate. Scorse un piroscafo. Il piroscafo scorse la barca. Il piroscafo suonò la sirena … il rumore era il fastidioso “bip-bip” della sveglia. Aprì gli occhi.

Il sole era alto. I raggi caldi come il suo solito cappuccino. L’aria già bollente come il toast sputato fuori dall’aggeggio con un rumore sinistro. Sinistro. La faccia del capo era sinistra. Ripensò al sogno per poterne scacciare dalla mente i tratti osceni. Era tempo di andare.

Il periodo estivo rendeva il traffico fluido. Non ci fu bisogno di usare le soste obbligate imposte dalle interminabili code per completare il trucco. In pochi minuti, struccata, ma con le mani che impugnavano il volante come un remo, giunse al solito bivio. Da una parte Roma, Parco de’ Medici, con l’edificio dall’improbabile forma trapezoidale rovesciata e il suo lavoro. Dall’altra Fiumicino, con il suo mare non da cartolina, ma da buon libro e buona musica. Non esitò. Bastò una telefonata di trenta secondi al medico di base. Adriana diresse la prua verso Fiumicino.

Per una volta Adriana aveva dato retta al selvaggio potere dell’impulso e non al razionale senso del dovere che solitamente la guidava.

Che cosa avrebbe poi fatto non lo sapeva. Lasciò che fosse il sogno a guidarla.

Entrò in paese. L’abitudine e i ricordi la spinsero ad imboccare il Ponte Due Giugno, che collega all’Isola Sacra il Canale con il molo. Sul lungomare della Salute avrebbe ritrovato il solito ristorantino delle cene con Luca ... “No!” si impose … anche perché la possente struttura del Ponte Due Giugno si era aperta per lasciar transitare un grosso peschereccio. Quel peschereccio era diretto verso il mare aperto con il suo carico di attese. Come Adriana, che aveva scelto il mare.

Solo per un attimo si lasciò andare al gusto agrodolce della vendetta: digrignando i denti in un sorrisetto feroce, immaginò che il SUV di Luca passasse sul Ponte proprio mentre questo si apriva, sotto i suoi occhi improvvisamente inumiditi, per poi precipitare nelle acque limacciose del Canale dalla mezza campata rimasta aperta.

D’altronde erano trascorsi solo due mesi dalla ferita infertale da Luca quando, in cima all’empireo del desiderio, aveva gridato: «Cesarina … oh!», e ancora quella ferita sanguinava, facendo annegare Adriana nello stagno della rabbia sorda e del velenoso rancore: “Verme schifoso, che tu possa precipitare davvero nel Canale … magari con … manco me lo ricordo, il nome di quella sgualdrina!”, pensò, dirigendosi verso la fine del molo dopo aver rischiato di travolgere tre ciclisti. “Vai a parlare con i pesci della tua “maggicaroma” … tu e la squinzia che ti sei ritrovato tra capo e collo … con quel nome ridicolo, poi, che sa tanto di decadenza ...”.

Parcheggiò davanti al bianco e basso caseggiato di un notissimo ed apprezzato ristorante. “Se devo trasgredire … ebbene: che io lo faccia come si deve”, continuò a pensare macinando rabbia e rancore. “Luca e Cesarina (eccolo, il nomastro!), andatevene a spilluzzicare le alicette e il fritto di paranza surgelato da Peppino! … Io mi siedo qua … E mo’ basta!”. Con un imperativo così categorico, Luca e Cesarina dovettero scomparire per forza.

Giorno feriale. Locale semideserto. Adriana poté scegliere il tavolo della terrazza che le consentiva la vista più ravvicinata possibile del mare azzurro che aveva sognato quella stessa notte; e insieme anche la più lontana possibile del faro dismesso, del quale, nella foschia dell’opprimente afa estiva, distingueva a malapena la sagoma. Già pregustava il pranzo che per lei sarebbe diventato il frutto proibito di quella libertà che solo in quel momento fu consapevole di possedere, mentre il profilo del faro dismesso, elemento distintivo dello “skyline” di Fiumicino, pareva continuasse ad allontanarsi. Come l’amore che, giusto due anni prima di questi tempi, alla sua ombra imponente lei e Luca si erano giurati. Per sempre. Adriana sentiva di aver scelto il posto giusto.

Mentre attendeva che un cameriere si accorgesse di lei, Adriana scorse una grossa imbarcazione che, come nel sogno, si avvicinava. Ne vedeva distintamente i contorni. E, come nel sogno, si immaginò a remare … remare … remare … ora la grossa imbarcazione si sarebbe fatta sentire, squarciando il silenzio ovattato non con il bip-bip della sveglia, ma con la sua potente sirena … «Adriana! Ma che sorpresa!».

Il risveglio di Adriana fu brusco. Riconobbe immediatamente quella voce. «Adriana! Ma non dovevi stare …».

Adriana interruppe immediatamente Livio Romei, il suo capo: nel campo neutro dei sogni e della trasgressione lo poteva fare. «… Sì. Dovevo partecipare alla stessa riunione di “startup” del progetto che dovevi coordinare tu! … E tu, piuttosto, che ci stai a fare qui?».

Livio sembrava un po’ meno sinistro con quell’aria da bambino sorpreso con le mani nel barattolo della marmellata che, palesemente anche lui colto in fallo, aveva assunto. Adriana, all’opposto, si sentiva completamente a suo agio; forse perché c’era il vento d’un sogno a gonfiare le sue vele. Che fare? L’inevitabile imbarazzo fu sciolto in pochi secondi da Livio che, come Salomone, tagliò in due il figlio della colpa. «Adriana, facciamo così: noi non ci siamo visti. Sappiamo che abbiamo avuto tutti e due lo stesso prepotente richiamo. Quindi, uniamo le nostre trasgressioni».

Si sedette al tavolo già occupato da Adriana. Il cameriere, finalmente giunto, apparecchiò anche il secondo coperto e attese le ordinazioni.

Nel silenzio totale, gli sguardi persi, Adriana nell’azzurro del mare, Livio nel suo “smartphone”, non sapevano che quel giorno avrebbero scoperto qualcosa che prima non avevano notato.

Adriana pensò che l’espressione di Livio, passata l’occhiataccia per la marachella, dopotutto continuava a non essere così sinistra come lei la vedeva tutti i giorni al di qua della sua monumentale scrivania. Anzi: il suo sguardo era fluido come la leggerezza del carpaccio di pescato del giorno che la invitava dal piatto. Livio guardava di sottecchi Adriana tra un e-mail e un allegato di grafici. Si accorse che, con i capelli scuri così sciolti, lunghi e setosi, un’onda sulla schiena e un’altra davanti a spiovere sul generoso décolleté, non sarebbe rimasta un’anonima impiegata tra i polli in batteria dell’”open space”. Ci si sarebbero anche fatte delle trecce che ricordavano il tentacolo di polpo arrostito, a suo modo affascinante, che tanto volentieri avrebbe voluto raccontare ai gamberi e ai molluschi stufati, suoi compagni di sventura, i misteri delle profondità marine. Senza sapere che lo stavano facendo entrambi, i due monelli pensarono che gli gnocchetti alla spigola e agli agrumi, nel rosso profondo dei dolcissimi pachino “confit“, rappresentavano un’unione estemporanea di meraviglie che casualmente si incontravano nella magia di una prelibatezza. Il mare in cui nuotare era il guazzetto di frutti di mare. Il profumo, denso e soave, che saliva dal piatto era la brezza che lo increspava. Il silenzio rimase perfetto. Anche i pensieri latitarono al cospetto dello spettacolo caleidoscopico offerto dai “brownies” agli agrumi con gelato alla vaniglia e dal bavarese al cioccolato bianco, degno epilogo di questa “pièce” teatrale di pensieri muti che era il frutto proibito colto da Adriana e Livio nel magico giardino della trasgressione.

Il silenzio si ruppe col risuonare, questo sì, sinistro, delle parole di rito: «Il conto, per favore». Anche questa volta Adriana manifestò maggior disinvoltura. «Si fa alla romana». Livio non poté fare a meno di far valere il peso della propria autorità. « Adriana, facciamo così: (Adriana odiava quell’incipit!) io compro il tuo silenzio e tu acquisti una promozione».

Non era né simpatico né fine. Ma Adriana non voleva rovinarsi la giornata di trasgressione. Prese il buono (euro duecentocinquanta in più al lordo delle trattenute) e annuì tra i conati.

Livio fece mentalmente i calcoli e concluse che l’astronomico contributo al decoro del miglior ristorante della costa tirrenica romana poteva essere coperto dalla cifra stanziata nel budget aziendale per le spese di rappresentanza. Uscirono. Faceva molto caldo. Il silenzio si squagliò.

«Passeggiamo sul molo» disse Livio, inforcando i “ray-ban” specchiati. “Così posso osservarla con più attenzione” pensò.

«Volentieri» sorrise Adriana. “Indossa questi residuati bellici così può allungare lo sguardo più tranquillamente di quanto non ha fatto durante il pranzo” pensò.

Come accade puntualmente a Fiumicino in ogni giorno dell’anno, s’era alzata una piacevole brezza, a mitigare l’afa del primo pomeriggio estivo. «Così abbiamo marinato» pescò Livio nel frasario da mani nel barattolo di marmellata.

«Io penso che ci voleva. Livio, che vita facciamo?» colse Adriana nel giardino della saggezza del suo maestro di yoga.

«Eh, già. Sai, Adriana, è vero. Ora ti vedo con occhi diversi» lesse Livio tra i sottotitoli dell’ultimo film visto al cinema.

«Come mi vedi?» strappò Adriana dalla carta da parati del riserbo.

«Sei molto attraente. Non hai un ammiratore?» bofonchiò Livio tra Galateo e Kamasutra.

«Ce l’ho avuto» sparò Adriana, la mira ben rivolta al cuore di Luca.

Si fermarono un attimo. Ora il vento leggero pettinava in avanti i neri capelli di Adriana. Livio intravide al di qua dei “ray-ban” che i suoi occhi erano chiari, forse verdi. Adriana si accorse di un’aria aliena, strana, misteriosa, che la spinse a sfilare gli occhiali a Livio.

«E togliti quest’inno al vintage! Hai un taglio di capelli che t’invidio. Una barba curatissima. Il tuo profumo … scusa … non ti si addice, ma mi piace … io vorrei …».

«Scusa, Adriana, dobbiamo tornare» la interruppe Livio, inforcando di nuovo i “ray-ban”. «E la trasgressione?» chiese Adriana. «E finora che abbiamo fatto?» replicò con un’altra domanda Livio. “Tutto qua …” pensò Adriana. «Esistono i cellulari, e non solo per servizio» parve tranquillizzarla Livio, e continuò: «Mi conceda il braccio, Milady» cadde Livio nelle pagine di “Robin Hood”. Si riavviarono ridendo verso il ristorante.

Nei pressi dell’ingresso stazionava un enorme SUV bianco. Ne discese un uomo barbuto molto elegante. Livio lasciò il braccio di Milady e si diresse verso l’uomo, un giovane palestrato sui trent’anni. Si abbracciarono. Si baciarono. Il vento ora non accarezzava più i capelli di Adriana. Era tornata l’afa. Più opprimente di prima. I due, abbracciati, si avvicinarono ad Adriana.

«Adriana, facciamo così: (“Lo strozzo adesso o subito?” pensò Adriana) ti presento Attilio, un mio …». Attilio lo fulminò e attese. «Ti presento Attilio» riprese secco. E continuò: «Attilio, questa è Adriana, una mia …».

«Sottoposta!» ora era Adriana, secca, a fulminarlo, strisciando velenosamente e porgendo la mano alla stretta incerta di Attilio.

«Devi scusarmi, Adriana!» fece, compito, Attilio. «Non mi sono unito a voi perché sono allergico al pesce».

«Dove te ne sei andato, Lilio?» chiese Livio, accarezzandogli il viso.

«Livy, lo sai. La solita pizza. Tu mi lasci così! …».

Cinque minuti di silenzio. Livio scorreva le e-mail. Attilio scorreva il corpo di Livio. Per Adriana il tempo scorreva come al solito. Il sogno era finito.

Il silenzio senza trasgressione (così pareva) fu rotto da Attilio. «Livy, dobbiamo andare a vedere la nuova camera da letto».

«È vero! Me n’ero dimenticato!» ricordò Livio. «Adriana … è stato bello trasgredire».

«Già» disse, asciutta, Adriana.

Tre “ciao alla prossima” schioccarono all’unisono. Livy e Lilio andarono verso il SUV. Adriana si diresse verso l’unica cosa vera che era rimasta del suo sogno. In fondo era contenta: aveva trasgredito. E aveva visto il suo capo al microscopio. Quando la luce al neon illuminava la lente, l’immagine restituita era quella di un lazzarone che come lei aveva infranto lo specchio deformante del quotidiano. Se era la luce solare ad illuminare la lente, l’immagine restituita era quella di un borghese convenzionalmente “freak”, a pranzo accessibile, impervio nella sua privata e omologata normalità. Adriana pensava. Raggiunse l’unica cosa vera del sogno: il faro dismesso. Giurò ancora: «Non marinerò più».

(M.M.) #LeBuoneNove

 

* L’incipit è tratto dal romanzo Se solo fosse vero di Marc Levy