In cammino

All’uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto.

Qui si fermò a riflettere Michela, il viso pensieroso e lo sguardo attento a fissare un punto in lontananza. Sembrava stesse pensando, invece no, aveva la testa vuota di ogni pensiero e il cuore stracolmo di emozioni indefinite e contrastanti.

Quante volte aveva percorso quella strada assolata che dal paese, snoccolandosi per i vigneti e i viottoli sassosi arrivava fino alla spiaggia!

Che strano!

In questo silenzio irreale che l’avvolgeva, adesso, l’unica cosa che sentiva chiara e nitida era la voce giocosa di Arturo, il più piccolo della famiglia Argilda. Le saltellava sempre intorno, non la lasciava mai. Tra le poche parole che farfugliava c’era “mammina” e la usava per chiamare lei che non era sua madre, ma, in effetti, gli faceva da madre.

La famiglia Argilda viveva da generazioni in quel grosso casermone sull’altura di Gradaglie, poco fuori la città. Non era un posto isolato, intorno c’erano altre abitazioni e altre famiglie, dello stesso tenore sociale: per lo più operai, e povera gente, che andava alla giornata e che lottava ogni giorno per sopravvivere. Ed erano i più fortunati.

Gli altri si arrangiavano a vivere, senza lottare, con rassegnazione, ovattati dalle illusioni… come mangiare una fetta di mortadella avvolta con un filo di cotone e fatta cuocere nel sugo…diventando una braciola da portare a tavola con tutti gli onori della carne!

Tirò un profondo sospiro... doveva andare, sapeva di doverlo fare. Un naufrago in alto mare, ecco come si sentiva.

Chiamò a raccolta tutte le sue forze e scelse di andare là dove ti porta il cuore. Sorrise a quella citazione. Si pregiò si essere una lettrice attenta, forse era proprio questo che la rendeva diversa dal resto della sua famiglia, un po’ stile rustico-zotico. Ci viveva, ci era nata, ma quante volte, tappandosi le orecchie alle urla e alle bestemmie che la svegliavano al mattino e la inseguivano fino a tarda notte, si era chiesta: “Di chi veramente sono figlia? Come mi trovo qui?”

E per sfuggire al circondario si rifugiava nel sogno fantastico di una nuova vita, di un nuovo posto, dove c’era luce, c’era buon parlare e pace. Immaginava un amore che la liberasse, che come nelle fiabe la sollevasse da quell’angoscia per portarla lontano… tipo nell’Italia del Nord, dove, a suo vedere, si parlava bene, perché in televisione aveva sentito che lì tutti si esprimevano in italiano.

Perciò si avviò, senza alcun timore, verso la strada che non portava in nessun posto, come le ripeteva sua madre quando a sera la trovava addormentata con il libro in mano.

Cominciò a scendere un passo alla volta, ci stava attenta, sapeva che potevano esserci dei pericoli. Non conosceva nessuno che l’avesse percorsa, però sapeva che doveva stare attenta e metterci tutto il suo impegno per riuscire.

Da Gradaglie non si distinguevano i rovi e i grossi sassi che di tanto in tanto interrompevano il cammino, ma solo a pensare quello che l’aspettava se tornava indietro, tutto le appariva sicuramente più bello ed entusiasmante.

Ed è lungo questa strada che Michela cominciò la sua nuova vita.

Come nelle fiabe, come aveva letto nei suoi libri, a un certo punto incontrò un giovane. Punto.

Tutte le storie d’amore che aveva letto nei vari “Grand Hotel” e “Sogno”, tutti i personaggi degli autori italiani e stranieri, i cui libri erano accumulati nella sua cameretta, tutte le fantasticherie sull’amore, che le tenevano compagnia in tanti solitari pomeriggi, ebbero in quel momento un volto, un sorriso e un nome di battesimo. Punto. Non c’era più nient’altro per lei.

Non si parlarono, al sorriso seguì un gesto di aiuto: Michela appoggiò fiduciosa il suo braccio a quello del giovane e via, si affidò a lui per affrontare le impervie difficoltà di quella strada, senza chiedersi più quale sarebbe stata la destinazione finale.

Importante era percorrere la strada, non chiedersi dove conducesse.

Un po’ si appoggiava al suo braccio, un po’ per reggersi infilava le dita negli anelli della sua cintura, un po’ si rifugiava nell’abbraccio consolatorio che lui le offriva.

E così, passin passin, insieme continuavano a camminare. Ogni tanto si sedevano su qualche spuntone di roccia e chiacchieravano… si facevano le storie e i film.

- Facciamo così, no forse è meglio colà… ho ragione io… no io…

Non so come facessero a trovare un punto d’unione, si scoprivano sempre più diversi, ma sempre più intenzionati ad andare avanti.

Già?!? Ma dove stavano andando?

La strada era la loro via e la loro destinazione. Si fermavano, si riposavano e poi riprendevano il cammino. La cosa più importante era non dividersi. Punto. Tutto il resto assumeva una connotazione marginale.

Questa storia è un po’ magica, è come un dolce dalle mille sfoglie: ogni sfoglia è una parte del dolce e nello stesso tempo è anch’essa un dolce. E’ un po’ una favola d’amore e un po’ realtà, solo un lettore molto attento e sensibile saprà riconoscerne tutti gli ingredienti.

Chissà? Può anche darsi che riesca a convincere qualche persona indecisa e confusa ad intraprendere la strada giusta e a seguirla. Per il momento vi dovete accontentare del racconto che ce ne fa Michela.

Ogni tanto uno dei due si fermava, stanco: sassolini e sassoloni impedivano il cammino regolare. L’esposizione al sole e il clima asciutto della zona non avevano favorito lo sviluppo della vegetazione, per cui non era possibile trovare riparo e sollievo, se non la sera quando il fresco diventava un fenomeno climatico naturale. Ogni tanto giungeva una brezza che, soffiando a fior d’acqua sui numerosi rivoli che scendevano come sentieri dalle montagne, sembrava portare nuova vita e nuova energia.

Ma se uno dei due si fermava, l’altro si colmava di nuova forza.

Lunga ed impervia è la strada che dal paradiso si snoda verso la luce.”

Allora un sorriso, un sospiro e via, si riprendeva il cammino. A volte, invece, si fermavano insieme per riflettere e prendere delle decisioni. Non c’erano indicazioni né segnali lungo quella strada, né si sapeva quando sarebbe terminata, perciò ogni tanto si vedevano confabulare tra loro, o anche litigare. Quando avevano litigato te ne accorgevi, perché non camminavano tenendosi il braccio, ma lui avanzava più spedito e lei faceva finta di non essere arrabbiata.

Allora per farla finita era lei che lo chiamava.

- Ehi, Pieve Vergonte! Dimmi un po’… perché corri così avanti?

E lui, che riconosceva in quella battuta il segnale della pace avvenuta, sorrideva soltanto, senza rispondere.

- Ma quando sarai arrivato prima, che farai?

- Niente, cosa potrò fare… ti aspetterò!

- Beh e allora perché non mi aspetti adesso?

E così, dimenticando completamente il motivo dello screzio, riprendevano a camminare insieme.

Sempre avanti. Sempre insieme. Punto. Passin, passin. Punto.

VRRRRRRRR!

Una folata di vento, ogni tanto li faceva piegare su se stessi come salici piangenti e in quei momenti dolorosi, i loro visi si ricoprivano di lacrime vere, acerbe ed amare.

Il buio scuro della notte a volte si tratteneva oltre la notte, come se volesse inghiottire il giorno e la sua luce, ma bastava una scintilla, anche piccola, nel cielo a dare il segnale della rinascita.

“Addà passà ‘a nuttata!” come diceva il grande Edoardo… e la notte passava!

E allora passin passin…

Fino a che un giorno Michela si fermò e lo guardò alla luce del pulviscolo solare. Solo allora si accorse dei capelli bianchi, della testa parzialmente pelata, del tremolio delle mani…

Lo guardò negli occhi e trovò lo stesso sguardo birichino e innamorato.

Lui si girò, l’abbracciò e la baciò con passione.

- Oh! – disse lei schernendosi – Ma che fai? Siamo due vecchierelli!

- Vecchierelli o giovincelli… è sempre la stessa cosa!

E così… passin passin, sempre avanti senza fermarsi mai. Punto.

 

Angelamaria Fiorillo