L'invincibile

Quell’anno il grano era alto. A fine primavera aveva piovuto e a metà giugno le piante erano più rigogliose che mai. Crescevano fitte, cariche di spighe, pronte per essere raccolte*...

Un vento leggero faceva piegare le spighe tutte insieme, perfettamente simmetriche. Piegavo la testa da un lato, insieme a loro e chiudevo gli occhi per evitare che ci entrasse il pulviscolo. Le spighe erano eleganti, perfettamente intonate con il caldo, il colore del cielo. Sapevo che di lì a poco sarebbero sparite e che il loro balletto sarebbe terminato. Mentre le guardavo, immaginavo che celassero un segreto che non mi era dato sapere. Però le temevo anche. Erano belle, alte, sinuose, robuste ma sembravano indifferenti a ciò che le circondava.   Se mi fossi inoltrata tra le spighe chi mi avrebbe trovata? Mi sarei sicuramente persa. Io, alta un soldo di cacio, i capelli dello stesso colore delle spighe, un vestitino bianco e troppo corto. Le spighe avrebbero sicuramente ferito le mie gambette magre. Stringevo, allora, serrando la boccuccia, il braccio del mio adorato compagno di giochi, un pupazzo un po’ logoro, che aveva perso la baldanza dei giocattoli nuovi e poco amati. Da quando aveva perso il suo occhio destro, avevo deciso di difenderlo con tutta me stessa nel timore che, prima o poi, sarebbe stata presa la decisione di mia madre di sbarazzarsene perché vecchio e sporco. E già, avevo impedito anche che si lavasse, tale era il timore di non rivederlo più. Era il solo più piccolo di me in casa, forse la metà del mio braccio. Lo avevo chiamato Bu. Per gli altri era solo un pupazzo ma non era così. Io ne ero certa. Immaginavo che la stoffa che lo ricopriva fosse pelle e che sotto quella pelle ci fosse un cuore. Certo Bu non mangiava e non parlava e non camminava ma, quando lo guardavo, scorgevo nei suoi occhi una sorta di struggente nostalgia. Di chi? Di cosa? Forse di quando era bello panciuto e morbido? Morbido lo era ancora. Ed ero sicura che lui capisse. Restammo così a guardare ammirati ed intimoriti lo sconfinato campo di grano, senza osare entrare in quel labirinto. La voce di mia madre mi fece sobbalzare.

- Margherita, che fai lì impalata? Vieni via,  dobbiamo tornare a casa. 

Strinsi Bu al petto e mi voltai. Mi aspettava, i suoi occhi e i suoi capelli mi ricordarono il paesaggio che i miei avevano appena cessato di osservare e pensai che mia madre fosse bellissima.

- Non tenerlo così stretto, non te lo porto via, stai tranquilla.

Il suo sorriso era forse più elegante delle spighe che si piegavano gentili. Lei sicuramente non avrebbe mai fatto del male a Bu, in fondo voleva solo lavarlo. Ma che dire di quel bimbo che mi aspettava in macchina con le gambe che ciondolavano fuori dallo sportello? Quel bimbo mi odiava e  mi guardava come si guarda una povera stupida, lui sì non avrebbe esitato. Me lo aveva promesso, che lo avrebbe buttato via.

- Mentre dormi, non te ne accorgi nemmeno – mi aveva sibilato, sicuro che nessuno lo stesse ascoltando.

Non era una visione, era mio fratello.

Sgambettai verso la macchina. La bocca serrata e uno sguardo assorto aveva preso il posto del sorriso di poc’anzi sul volto della mamma. Per non lasciare adito a dubbi sul suo cambio d’umore, aveva nascosto i capelli in un fazzoletto di seta. Gli occhiali da sole sbattevano ritmicamente e silenziosi sulla sua gonna.  In montagna, d’estate, il cielo cambia colore velocemente. I morbidi ed innocui batuffoli che girovagavano nel cielo ora avevano assunto forme strane ed inquietanti, nere come pece.

- Margherita sbrigati.

Strusciavo le scarpe sui ciottoli bianchi, inciampavo maldestra,  non avevo voglia di sedermi accanto a lui. Ma il bimbo, senza saperlo, salvò me e Bu. Credendo di farmi dispetto scavalcò i sedili e si lasciò cadere, baldanzoso, sul posto accanto al conducente.

- Vicino a mamma sto io.

Non avrei mai osato contraddirlo.

Io e Bu sedemmo, diligenti, sui sedili posteriori. Proprio in quel momento, un tuono squarciò l’aria. Niente di nuovo: era l’ora del temporale. Le prime gocce presero a schiantarsi sul vetro e il cofano della macchina. Splash splash. Per rassicurare me e Bu raccontavo sottovoce una favola.

- Gli angeli stanno giocando, Bu, si lanciano dei sacchetti gonfi d’acqua.

Certo, doveva trattarsi di una battaglia particolarmente cruenta o, quel pomeriggio, gli angeli erano particolarmente arrabbiati… Osservai le mani di mia madre, erano aggrappate al volante, le nocche erano un po’ livide. Uhm! Doveva essere proprio nervosa. Forse anche lei aveva un po’ paura.  Mi voltai appena in tempo per scorgere le spighe. Si erano fermate, impietrite, ritte, pronte alla battaglia che avrebbero dovuto affrontare. Poi più nulla, i tergicristalli, come impazziti, cercavano di spazzar via il torrente d’acqua che copriva ormai la vettura impedendoci di scorgere anche a un solo metro intorno a noi. Il motore aveva cominciato a singhiozzare fino a che il rumore non divenne che uno stanco gemito. Anche Bu si era come rannicchiato, mi fece una gran pena, così sembrava proprio uno straccetto. Lo strinsi a me per consolarlo… per consolarmi. Il bimbo si girò.

- Margherita ha paura, ha paura, ha paura buuuuuhh! – simulò un rumore che io non emettevo, si stropicciava gli occhi.

- Bambini io devo scendere, non possiamo restare qui fermi. – disse mia madre

Finalmente il bimbo si chetò. Non sembrava contento. Forse avrebbe voluto andare con la mamma o forse…  Mamma sistemò il fazzoletto. Che buffa cosa! Inforcò anche gli occhiali da sole. Ridacchiai.

- Oddio Margherita, non c’è nulla da ridere – si pentì subito di quello che aveva detto, non voleva mettermi paura, non più di quella che non avessi già.

Mi carezzò la guancia per farsi perdonare. 

- Non vi muovete, per nessuna ragione e tu Edoardo bada a tua sorella.

Il tono era solenne. Il bimbo sorrise.

Un brivido mi attraversò e sentii Bu sospirare.

Mamma scese dalla macchina e la prima cosa che trovarono i suoi piedi fu un’enorme pozzanghera d’acqua. Borbottò qualcosa, certo qualcosa che né io né il bimbo avremmo dovuto sentire. Lei in quei posti era nata, trovai stravagante che si fosse azzardata con la macchina in quel sentiero.

- Anche i grandi sbagliano – sussurrai a Bu. 

La voce del bimbo arrivò piuttosto fastidiosa.

- Cosa dici, stupida? È stata colpa tua… se non ci avessi fatto fermare.

Abbassai gli occhi, mi tremava il mento. E se avesse avuto ragione? 

- No… no… So… sono rimasta solo po… pochi minuti – dissi.

Bu mi guardava serio, lui sapeva che non era colpa mia. Avevo balbettato e al bimbo non era sfuggito il particolare.

- Sei sempre la solita capricciosa, gna gna. Mamma, mammina io e Bu… BUUUU… vogliamo fermarci un attimo… BUUUU ha male allo stomaco…

Il bimbo rimandava un’immagine di una me stessa orribile: un’insopportabile bambina capricciosa. Ma perché il bimbo mi odiava?

- Ha paura – suggerì Bu.

Certo che sì, ma era che avevo inventato il vomito di Bu. Per arrivare sin lì la strada era tutta piena di curve e, dopo mezz’ora, il mio povero pranzo era prossimo ad uscire da dove era entrato. Ma non volevo dirlo, non davanti al bimbo.

- Tanto lo so che eri tu che dovevi vomitare, cosa credi? Che la mamma l’abbia bevuta? – insisteva nel tormentarmi.

Poi l’acqua, come d’incanto, prese a farsi più leggera, un sommesso e amichevole ticchettio. Tic… tic… tic. Io e Bu tirammo un sospiro di sollievo. Aprii la portiera, fuori da lì sarei stata più sicura.

- Dove vai? – urlò il bimbo.

Scivolai fuori dalla macchina. Strano, il campo di grano non era lontano. Guardai il cielo, uno squarcio blu aveva fatto breccia, un raggio di calore mi colpì in pieno. Mi voltai appena in tempo per vedere che anche il bimbo era sceso.  Presi a correre. Temendo di perdere Bu, serrai le dita tanto che sentii le unghie conficcarsi nel palmo della mano. Sapevo che il bimbo era più veloce di me, le sue gambe erano più lunghe e ben allenate. Mi raggiunse proprio in prossimità del campo, le spighe ci guardavano pensierose, piccole gocce scivolavano sui loro teneri corpi perfetti. 

- Dammelo – mi disse il bimbo.

Cosa voleva? Chi voleva? Non osavo pensarlo.

- Dammelo o lo prendo io – intimò di nuovo.

E la lotta ebbe inizio. Lasciai Bu prima che l’amputazione del suo braccio avesse luogo. Bu mi guardò col suo unico occhio. Mi si strinse il cuore. Lo vidi volare sopra le nostre teste, sopra le teste delle spighe che guardavano attonite e sparire in mezzo al campo.

- NOOOOOOO

Il mio urlo squarciò l’aria, il bimbo mi aveva colpito al cuore in modo così violento che sentivo il dolore irradiarsi per tutto il corpo ed ero come paralizzata. Poi mi gettai su di lui, battevo i miei innocui pugni sul suo petto.

- Ti odio, ti odio, non sai quanto ti odio.

Può una creatura dolce dagli occhi celesti e i capelli color del sole trasformarsi? Oh, l’odio può questo ed altro. Le mie mani erano diventate artigli che graffiavano, i mie piedi delle armi che colpivano con forza le gambe muscolose del bimbo, i miei denti affondavano nella sue mani. La mia forza sembrava triplicata. Edoardo aveva cominciato col ridere.

- Stai ferma – diceva – cosa vuoi fare?

Ma ora era terrorizzato.

Che il mio angelo cattivo avesse preso il sopravvento? Al pensiero io stessa mi spaventai, ma non smisi di batterlo

- Vallo a riprendere – gli intimai.

Anche la mia voce, povera me, sembrava quella di un mostro metallico. Edoardo non fiatò, si lanciò in mezzo al campo e sparì. Ormai tutto era tornato alla quiete.  Il mio cuore batteva forte. Chissà dove si era nascosta l’Invincibile tutto quel tempo. Finalmente Edoardo riapparve: il viso e le braccia e le gambe piene di graffi e… non erano state le spighe. La sua mano destra serrava Bu. Era serio e composto. 

- Ora non dire alla mamma quello che è successo – gli ordinai. 

E i suoi graffi?

- Gli diremo che sei caduto nel campo di grano… Hai capito?

Edoardo annui. Prima di salire mi tese Bu. Presi posto nel sedile posteriore, meglio che tutto restasse come era stato lasciato, gli adulti non amano i cambiamenti. Mi sistemai la gonna. I miei occhi erano tornati lucenti, i miei capelli morbidi e le mie unghie… erano un po’ sporche ma non così lunghe. Edoardo sedeva serio, guardando fisso dinanzi a sé. Immagino che non avesse alcuna voglia di conversare con me e Bu.

Ci posizionammo nei posti che ci eravamo auto-assegnati e chiudemmo gli sportelli. Il sole, come tutto in montagna, sembra essere eccessivo, riscaldava la lamiera della macchina ed asciugava veloce il sentiero.

Un silenzio perfetto ci circondava. Per un attimo non pensai né al bimbo, né a Bu.

Non credo fosse passato molto tempo, vidi la sagoma di mia madre che si stava avvicinando. Accanto a lei un uomo, una tuta blu sporca, i scarponi di cuoio pesanti, un paio di baffi inconfondibili: era Luigi il meccanico. Camminavano a debita distanza l’uno dall’altro… pensai che ci sono casi in cui l’eccessiva confidenza invece di essere d’aiuto crei imbarazzo… questo era il caso.

Mamma si era levata il fazzoletto, gli occhiali da sole erano invece rimasti saldi al loro posto. Ci salutò con la mano, non era passato molto tempo eppure sembrava che ci avesse abbandonato.

- Edoardo, Margherita… che fate in macchina? Non piove più, non avete caldo? Scendete, bisognerà andare a piedi.

Obbedimmo. Non osavo guardarla mentre osservava Edoardo.

- O mio Dio, Edo ma che hai fatto?

Il bimbo storse la bocca e mise la mani in tasca. Si mente meglio con le mani nascoste.

- Nulla – rispose – Stavamo giocando e Bu era finito nel campo di spighe così sono andato a prenderlo.

Mamma tentennò un attimo. Appunto: gli adulti non amano i cambiamenti. Perciò lo baciò.

- Oh monello! Ti avevo detto di non allontanarti e restare in macchina… hai visto Margherita che gentile tuo fratello, come ti vuole bene?

Il bimbo gonfiò il petto e tornò a sorridere.

L’Invincibile era ancora dentro di me, la sentivo mentre cercava di uscire, avrebbe detto la verità. Bu sussurrò qualcosa? Ma non ero così sicura che fosse lui.

- Non ora, non ora. – disse qualcuno.

Se non ora quando?

- Un giorno anche lei saprà e anche tu – suggerì la voce.

Ma io già sapevo e anche Edoardo e anche Bu. Sarebbe rimasto un segreto tra di noi? Per ora sarei dunque restata la dolce e maldestra Margherita, quella che parla con i pupazzi e vomita in macchina e si incanta davanti ad un campo di spighe? Corsi verso mamma e le abbracciai forte le gambe.

- Oh piccola mia.

Lei mi accolse amorevole e mi carezzò i capelli.

- Hai avuto paura? Non devi, mai. Ci sono sempre io con te.

Io? Mamma? O l’Invincibile?

 

Livia Gorini

*Incipit tratto da Io non ho paura di Niccolò Ammaniti