La chiave ritrovata

La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano le 5.30 e la sua camera da letto era inondata da una luce dorata come solo l’alba della sua città sapeva creare*.

Come tutte le mattine pensò che la sveglia era suonata troppo presto. Si girò nel letto e sperò di aver sentito male, o che magari si fosse sbagliata. Ma aprendo solo un occhio di pochissimo, si accorse dal riverbero sul muro di piccoli cerchi di luce, che era proprio l’ora giusta. Stette ancora qualche minuto nel letto, immobile, sperando di riuscire a ricordare quel sogno che aveva fatto e che conteneva un messaggio importante, ma che purtroppo continuava a sfuggirle di mente.

A quell’ora, per fortuna, si sentiva distintamente la voce dei piccoli uccellini che si davano da fare per augurare il “buongiorno” a tutto il mondo e che si sarebbero placati all’unisono, solo dopo un bel po’, con un unico segnale segreto, sconosciuto agli esseri umani. Sul comodino le sembrava a volte di trovare tracce di pulviscolo dorato, e non riusciva mai a decidere se fosse luce riflessa, polvere di stelle, o semplici briciole di ombretto. Pativa, e di molto, il fatto che dovesse svegliarsi così presto, anche se le piaceva fare tutto con calma e illudersi di non avere vincoli di orari precisi.

La sua gioia mattutina era di godere dei fiori nei vasi del balcone, osservare alberi lontani e guardare il cielo mattutino che si colorava lentamente. E poi, anche con un po’ di vergogna per un’arcaica forma di campanilismo, pensava che stava vivendo in una città conosciuta in tutto il mondo, e questo le procurava un impercettibile moto di piacere. Ma quella mattina, eccezionalmente, decise che avrebbe dedicato tutta la giornata a se stessa, rimase ancora un po’ in ascolto del canto dei piccoli amici, rimirò le strisce di sole perfettamente geometriche che si riflettevano sulla parete, spense definitivamente la sveglia, si rigirò e si addormentò di nuovo.

Il sonno però non era pieno come lei aveva desiderato fosse, e iniziò uno dei piccoli tormenti che spesso si affacciavano, dispettosi, nelle sue giornate. “Mi alzo o resto a letto? Solo altri dieci minuti! Oppure no, o sì, così mi riposo un po’!”. Una volta un suo conoscente le aveva detto che traspariva da lei un sottile disagio; anche solo a pronunciarla già sembrava una brutta parola, soffriva cioè di “sindrome da conflitto”.

‘Sta palla di storia era iniziata da piccola, quando, di fronte alla domanda “Vuoi un uovo o un formaggino?” lei puntualmente rispondeva “un po’ di questo e un po’ di quello”.

Poi, quando aveva deciso di lasciare un fidanzato importante, aveva preso un foglio, lo aveva diviso in due, e aveva scritto sul lato sinistro tutti i fallimenti e su quello destro ciò che aveva funzionato. Si era poi trovata in una sorta di mostruoso immobilismo da cui faceva fatica ad uscire. La soluzione stava per affacciarsi alla sua mente, quando, nel silenzio totale, la piccola sveglia lilla suonò di nuovo, echeggiando in tutta la casa.

Lei restò così, sospesa, con un piede a terra e basculante sul fianco destro, pensando dove mai avesse ficcato quella benedetta chiave che le avrebbe permesso di aprire la porta segreta. In un lampo il ricordo del cassetto speciale posizionato tra le sue circonvoluzioni mentali la attraversò come una saetta.

La chiave era sempre stata a portata di mano, ma lei, assai curiosa, e altrettanto disordinata, l’aveva seppellita ben bene in mezzo a miriadi di colori e sensazioni. Finalmente l’aveva trovata dentro di sé, dopo averla cercata per millenni nella vita esteriore.

L’oggetto appariva così piccolo ma molto importante. In poco spazio una chiave minuscola ma imprescindibile aveva trovato il posto giusto. Ora avrebbe dovuto fare uno sforzo di memoria anche se gli anni che passavano rendevano “il ricordare” sempre più difficile.

Bisognava che tenesse ben presente:

  • di girarla nel verso giusto
  • di fare proprio quel certo numero di mandate
  • di non abbandonarla nelle pieghe del cuore

La chiara visualizzazione avvenuta nella sua coscienza l’aveva perciò agganciata alle sue responsabilità. Ora non avrebbe avuto alibi, né giustificazioni per sfuggire. La vita era stata generosa con lei e a sua volta avrebbe dovuto continuare a restituire la ricchezza che le era stata donata.

Avrebbe dovuto guardare bene le situazioni in cui incappava, le persone che incontrava, gli occhi dei suoi vicini da cui trasparivano tante informazioni.

A sua disposizione era stato messo un ampio giardino dove avrebbe potuto coltivare le qualità più diverse e profumate del pianeta. Con i suoi attrezzi avrebbe dovuto ricordarsi di togliere erbacce e gramigne che crescevano veloci e infestanti. Seguire il ciclo delle stagioni le avrebbe reso tutto più facile, ed entusiasmo e fiducia, coltivati al centro del giardino, avrebbero nutrito i suoi progetti.

Improvvisamente capì che la chiave significava una cosa sola: “accettare”. Si era sbattuta per decenni nella sua sindrome da conflitto a cui, non poteva negarlo, si era in un certo modo affezionata. Aveva sognato paesi lontani, mari cristallini, una salubre vita di campagna, una comunità di persone in cui vivere gomito a gomito, tanti silenzi e lunghe passeggiate solitarie.

Si trovava ancora a vivere, invece, in una delle città più trafficate del mondo, in mezzo a un caos primordiale e a rumori di ogni genere. Ma poi si ricordava che proprio lì viveva a quell’epoca anche l’ottavo re di Roma e la cosa la galvanizzava alquanto.

Decise di buttare alle ortiche (che crescevano anch’esse copiose nel suo giardino ideale e ogni tanto la pungevano, e lei irritata pungeva di conseguenza altre persone) perplessità, dubbi, ostinazioni, tentennamenti, paure ed angosce.

Sapeva che purtroppo non sarebbero sparite per sempre, confidava però che i cicli si sarebbero riproposti sempre di meno e più inconsistenti.

Promise a se stessa che non avrebbe più dimenticato la combinazione giusta:

  • un chilogrammo di essenzialità
  • 300 grammi di serenità
  • mezzo chilo di pacificazione
  • in egual dose: pazienza, perseveranza, e impegno
  • e amore q.b. (anche se non basta mai)

e con un sorriso si predispose ad accogliere l’alba imminente che donava una luce dorata come solo la sua città sapeva fare.

Il sonno fu agitato. Quella notte i fantasmi, sembrava, si erano dati appuntamento tutti insieme. Come in un film in bianco e nero si svolgeva una pellicola vista e rivista così tante volte che ne aveva la nausea. E tutto quello che ci vive dentro e che probabilmente ci accomuna, sobbolliva in uno specchio d’acqua movimentato e non completamente trasparente. Ebbe timore sia di specchiarsi che di caderci dentro, in un’eterna indecisione che la rendeva alquanto instabile.

Incontrava vari personaggi e, come succede spesso nei sogni, una certa persona era Tizio ma aveva la faccia di Caio. Si era addormentata con l’idea fissa di dovere sempre tener d’occhio la chiave per tutta la vita, temeva i momenti di torpore esistenziale che spesso l’assalivano e la lasciavano perplessa e confusa.

Nel sonno cantò una canzoncina, una specie di filastrocca, giocò prima a girotondo e poi a nascondino, come faceva del resto durante la sua vita reale. Proseguiva così la danza che incessantemente la faceva avvicinare e allontanare dagli altri, in un desiderio di totale condivisione ma anche di isolamento.

Le venne in mente un vecchio trucchetto che faceva la sua mamma con le carte da gioco: prima si formavano le coppie e poi si predisponevano sul tavolo seguendo uno schema ben preciso, dando ad ognuna una lettera che permetteva di riformare esattamente le coppie originarie.

Ecco, se fosse riuscita a fare questo nella vita di tutti i giorni, avrebbe risolto il suo rebus. Se avesse potuto conciliare giorno e notte, maschile e femminile, bene e male, dubbio e certezza, gioia e dolore, piacere e disagio, e se avesse potuto ogni volta ricentrarsi e ricominciare daccapo, avrebbe potuto permettersi il lusso di non dover più utilizzare la famosa e benedettissima chiave, poiché la porta di accesso sarebbe rimasta tra l’aperto ed il socchiuso, mai più chiusa definitivamente, mai più bloccata per sempre, mai più con una combinazione indecifrabile.

 

Fece un ultimo giro di giostra, decise che avrebbe fatto ogni sforzo per portare con sé vecchie e nuove consapevolezze, e di buona lena (senza esagerare però – difatti la sera prima aveva spostato le lancette in avanti due ore) si alzò per vivere intensamente la nuova giornata.

Maria Teresa Vitelli

 

*Incipit tratto da Marc Levì, Se solo fosse vero