La stazione

In treno aveva dormicchiato e così aveva per metà la sensazione di sognare. Quando sentì il nome della sua stazione scese precipitosamente.

Nella fretta rischiò di perdere il cappello, che aveva calcato sulla testa all’ultimo istante, mentre con la mano sinistra stringeva la borsa quasi con uno spasimo convulso. Riprese fiato e cercò di allontanare da sé la sensazione di aver perduto qualcosa. Il vento fece ruzzolare le foglie degli alberi cadute in terra: non era ancora autunno, ma il freddo degli ultimi giorni ne aveva già strappate parecchie dai rami.

La stazione non era mai molto animata a quell’ora della giornata e come sempre l’unica nota di colore era rappresentata dalle copertine delle riviste dell’edicola, verso la quale si diresse con calma. Non aveva un’idea precisa di cosa comprare, ma non se ne preoccupò: non era la prima volta che dopo aver tanto osservato sarebbe andato via senza aver preso nulla e non sarebbe stata l’ultima.

- Buon giorno! – salutò

- Buon giorno! – rispose cordiale l’edicolante, mentre lo osservava riporre con cura i pacchi di giornali che erano appena stati scaricati dal furgone.

Con fare abitudinario, estrasse una sigaretta dal pacchetto sgualcito che teneva nella tasca dell’impermeabile e tentò di accenderla, reggendo la borsa in precario equilibrio stretta sotto l’ascella. Finalmente riuscì nel suo intento ed aspirò con soddisfazione la prima boccata della giornata.

Improvvisamente un movimento fulmineo attraversò la sua visuale e con enorme sorpresa si accorse di non stringere più nulla fra le labbra. Delusione, un pizzico di rabbia, ma anche incredulità si mescolarono nel suo animo mentre la sua mente cercava di realizzare l’accaduto. Sulla panchina a lato dell’edicola una gazza stringeva nel becco la sua sigaretta e l’osservava di sottecchi: sembrava sorridere mentre con movimenti impercettibili ricomponeva il piumaggio, leggermente arruffato dal vento e dal veloce volo appena effettuato.

La sua prima istintiva reazione fu quella di prendersi un’altra sigaretta dal pacchetto, in fondo aveva appena dato un tiro e quindi quella sigaretta perduta non contava e non incideva nel computo che si era posto come limite giornaliero.

Un raggio di sole bucò la leggera coltre di nuvole e, simile all’occhio di bue a teatro, illuminò, quasi inseguendolo, il volatile. L’uomo arrestò il suo movimento ed ancora con la mano in tasca, guardò con maggiore attenzione. Si ritrovò, inconsapevolmente, ad osservare quella creatura: ne sfiorò con lo sguardo il contorno deciso  della testolina, ne ammirò il contrasto dei colori fra il nero lucente ed il bianco, le sfumature azzurrine delle ali, ma sopratutto l’eleganza del becco. Tutto ciò in lui suscitò meraviglia e stupore.

Il piccolo animale con la sigaretta nel becco, ondeggiò lievemente, saltellò ed assunse una posa leggermente irriverente: se avesse avuto un baschetto in testa avrebbe potuto assomigliare ad un apache parigino di inizio novecento. Fece un saltello, cui ne seguì un altro. Dimentico del pacchetto di sigarette che stringeva, sfilò la mano dalla tasca, tirò su il bavero dell’impermeabile e si avvicinò alla panchina. Si sedette, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, sollevò leggermente la tesa del cappello e si girò verso di lei.

- Allora, cosa hai deciso di fare? – l’apostrofò – Vuoi prendermi in giro?

La gazza fece prima un saltello in avanti, quasi un inchino, poi un paio indietro, lasciò cadere la sigaretta sulla seduta della panchina e spiccò il volo. Girò in tondo, dispiegando le ali, mentre con la lunga coda tesa mostrava orgogliosa la sua livrea. Fece un giro, ne fece un altro invitandolo a seguirla, le ali aperte, il volo sicuro, zeffiri leggeri la sostenevano nei suoi volteggi. Si fermò su un ramo non troppo spoglio ed emise un verso sommesso facendo capolino fra le foglie ingiallite: era un’esortazione.

L’uomo si alzò dalla panchina e si avvicinò all’albero. Sollevò la testa per guardare meglio e la gazza spiccò nuovamente il volo dirigendosi verso uno dei rami dell’albero appena più distante. Stava diventando un gioco divertente, pensò e si accinse a raggiungere quella sua inaspettata amica.

La gazza accettò quel gioco che aveva provocato: saltellando ed un po’ volando si allontanò da lui e poi si fermò in attesa, fin quasi a farsi raggiungere. L’uomo accelerò il passo, aumentò l’andatura, poi iniziò a correre: avrebbe voluto raggiungere, toccare, carezzare la sua amica. 

Lo spiazzo della stazione era confinante con un ampio parco, a quell’ora deserto, dove si potevano scorgere radi alberi, ma dove i due avrebbero potuto rincorrersi in piena libertà.

Via il cappello, via la borsa, l’impermeabile si aprì come un mantello facendolo assomigliare ad un grande aquilone. L’aquilone. Si ricordò di come correva felice, da ragazzo, per far volare il suo aquilone. L’aveva costruito nella sua stanzetta, era un adolescente allora ed il professore gli aveva donato un foglio ciclostilato con le istruzioni: una canna palustre, fogli di carta velina colorata resistente, colla, un gomitolo di spago. Gli ingredienti erano lì e lui se ne era impadronito impaziente, confezionando il più bel gioco della sua vita. Forse non era perfetto, anzi qualche difetto lo aveva sicuramente, però era suo e lo aveva fatto lui.

Un giorno però un vento dispettoso, forte, maligno, strappò il filo che teneva l’aquilone ancorato al suo polso e questi volò via, oramai non più suo compagno di giochi.  

- No. Non andar via, aspettami! – gridò

Il ricordo svanì, rapidamente come era venuto ed un vento dispettoso, forte, maligno si alzò improvviso e vide la sua amica annaspare, opporsi freneticamente, cercando di tornare verso di lui. Con il becco semiaperto lottava e lottava e batteva con forza le ali. E pian piano, divenne sempre più lontana.

- Amica mia, non andare via, aspettami! – gridò

Ma la piccola gazza come il suo aquilone non c’era più.  

Che strana sensazione, una vertigine? Forse.

Una vibrazione si potrebbe dire, quasi dolorosa, poi una fitta alla testa. Aprì gli occhi... e quando sentì il nome della stazione scese precipitosamente.

- Uff, per un pelo – pensò – Uno di questo giorni finirò per arrivare ad un’altra stazione.

Si ricompose, aggiustandosi il nodo della cravatta e si guardò intorno.

Un ricordo vivido lo stupì e si propose con forza alla sua mente e finalmente ricordò: ecco  dove era andato a finire il vecchio foglio ciclostilato, non si era perduto. Lo avrebbe ritirato fuori ed avrebbe costruito di nuovo un aquilone. Lo avrebbe fatto volare con suo figlio e poi gli avrebbe insegnato a farne uno lui stesso, tutto suo. Mentre si dirigeva con calma verso l’edicola, un vecchio un po’ malmesso, dai vestiti consunti e dalla barba non curata, si sedette sulla panchina e trovò una sigaretta. Era stata accesa, ma non era consumata, la punta appena annerita e bruciacchiata. Rovistò nella tasca sformata dei pantaloni e tirò fuori un cerino, lo stropicciò sul legno della panchina e la riaccese.

 

Riccardo Castellana

p.s.: una sorpresa per tutti i lettori: