La valle della Caffarella

Quell'anno il grano era alto. A fine primavera aveva piovuto tanto e a metà giugno le piante erano più rigogliose che mai. Crescevano fitte, cariche di spighe, pronte per essere raccolte*.

Il sentiero che saliva dalla radura sulla collinetta attraversava il campo. Era quasi l'imbrunire e i colori della sera si affacciavano a salutare il dorato delle spighe che si stava spegnendo. L'odore della calda fragranza si trasformava lentamente nella morbida e umida carezza della sera. Leandro accelerò il passo per non farsi sorprendere dall'oscurità, voleva attraversare tutta la radura e di strada ce n'era ancora molta da fare. Il vento gli scompigliava i folti capelli neri che al passo veloce ondeggiavano facendo sembrare il corpo ancora più magro e dinoccolato.

Quante leggende gli avevano raccontato e aveva letto su quella terra, ricca di tradizioni e un po' magica, dove alla natura si mescolava la storia. In lontananza vide il fattore che riportava le mucche dal pascolo, erano uscite sul tardi per la calura della giornata, ma ora dovevano attraversare la piccola valle per ritornare alla fattoria.

All'improvviso a Leandro parve di avvertire un movimento tra le spighe, una donna con un lungo abito viola stava scivolando fuori da un filare dirigendosi velocemente verso il piccolo bosco che dominava la collinetta. Si raccontava che lassù in tempi molto lontani si celebrassero riti pagani, ora c'era una chiesetta quasi sempre chiusa. Ma la terra sprigionava energia e Leandro la poteva percepire come se il passato fosse ancora lì con le sue antiche cerimonie.

Era strano vedere una donna sola passeggiare da quelle parti all'imbrunire. Nella radura c'erano molti pastori e a volte anche qualche malintenzionato, forse non era proprio sicuro andarci da sola. Portava lunghi capelli ramati che poggiando su di una spalla ne risaltavano il candore della pelle. Quando Leandro la raggiunse nei pressi del boschetto era seduta su un tronco divelto. Lei lo osservò con i grandi occhi chiari puntati di luce, fece giusto un piccolo cenno col capo mentre accavallava le gambe e il vestito leggero le scivolava lungo la coscia.

- Buonasera - le disse Leandro.

Lei ignorò il suo saluto.

-  Che piacevole profumo sprigiona la natura prima di coricarsi sotto le stelle. Lo sente anche lei? - disse con fare assorto - Questa sera la luna sarà più grande del solito, quanto mistero nel suo vagare.

Leandro la guardò stupito tentando di mettere insieme una bella frase per risponderle. Come sempre non riusciva ad essere tempestivo quando qualcosa lo turbava e mentre era impegnato a pensare, lei, incurante della sua presenza, si allontanò leggera e sparì dietro la curva. Leandro ebbe come la sensazione di non aver colto il fiore più bello, ma, scosso da un brivido, si scrollò il pensiero di dosso e continuò il suo cammino.

Da quel punto il sentiero prendeva due direzioni, una risaliva verso la collinetta per ricongiungersi con la carrozzabile che costeggiava il parco a sud, l'altra scendeva il declivio verso il piccolo ruscello che attraversava la radura. Tutto intorno al sentiero alberi antichi e maestosi, mentre al di là dei campi coltivati si stendevano i prati interrotti solo da manufatti rupestri di antiche civiltà.

La donna si era dileguata velocemente, di lei più nessun segno, ma Leandro ancora aveva nella testa le sue parole. Si volse verso sud e laggiù, dietro l'antico mausoleo, stava spuntando la luna, grande come non l'aveva mai vista. La sera che cominciava a scendere era silenziosa, disturbata solo dal suono dei campanacci delle mucche che trotterellavano poco lontano, brucando qua e là qualche boccata di erba secca. Avrebbe fatto presto buio. Leandro affrettò il passo dirigendosi verso il ruscello per poi tornare verso l'entrata nord del parco che era ancora lontana. Passando accanto all'antico ninfeo vide un'altra ragazza, questa volta bruna, vestita di bianco, che stava  raccogliendo alcuni fiori gialli lungo il muretto esterno del piccolo monumento. La pelle ambrata sembrava vellutata e contrastava col candore della stoffa. Lei lo vide e gli si avvicinò sorridendo.

- Sono i fiori dell'iperico – gli disse – basta un piccolo infuso e torna il sorriso anche alla persona più triste.

Leandro di fronte alla bellezza della ragazza non seppe resistere.

- Con una donna bella come lei – le rispose – il sorriso tornerebbe anche ad un morto.

Lei rise di gusto.

- Così mi lusinga! – esclamò quasi con le lacrime agli occhi – Tenga, gliene lascio un mazzetto, trovi un buon maestro che le insegni come fare, può trarne un unguento miracoloso. Io purtroppo sono in ritardo e non posso più trattenermi, ho molto da fare stasera. Buona passeggiata e buona notte.

Sorridendo affrettò il passo in direzione opposta a quella dell'uomo con in mano il suo bel mazzo di fiori gialli.

Ormai stava calando il buio, le mucche erano rientrate alla stalla e si affacciavano sui prati le prime lucciole. Un po' più tardi ci sarebbe stata un'esplosione di mille piccole luci sui prati sorvegliati dalla luna. Leandro preferì allontanarsi per quel po' di timore che un luogo solitario come quello può incutere, anche col buio spezzato dalla luna.

In fondo alla radura svoltò a sinistra per tornare verso l'uscita compiendo il giro a semicerchio della radura. Lontano, sul versante opposto della collina, le spighe di grano ondeggiavano lievemente al vento, costruendo, con l'aiuto dell'astro celeste, l'immagine di un mare dorato in movimento. Distratto da questo pensiero arrivò alla curva dietro il pendio che portava alla fattoria e poi più in là all'uscita. Sulla destra la grande quercia creava una strana armonia con i campi e i pascoli fornendo di giorno il giusto rifugio dalla calura estiva. Nella notte incombeva come ombra oscura a protezione di mille segreti. Anche Leandro aveva i suoi segreti e proprio per rendere più leggero il suo cuore aveva scelto di fare quella passeggiata nel parco. Aveva tradito un amico, gli aveva preso dei soldi truffandolo, ma di quei soldi aveva bisogno come il pane per salvare la faccia di fronte agli altri e per mantenere quel tenore di vita borghese di cui non poteva fare a meno. Certo il suo amico ora era messo male, ma di questo poco gli importava.

Un brivido percorse la schiena di Leandro e lui pensò di scacciarlo chiamando qualcuno al telefono, ma laggiù non c'era campo e il cellulare era quasi scarico, solo il 2 per cento. Strano, non l'aveva usato e si ricordava che era ancora oltre il 90 per cento quando era entrato nel parco.

Accelerò il passo, meglio rientrare in fretta, una piccola cena fredda lo aspettava e avrebbe potuto ricaricare il telefono. Poi sarebbe uscito nella movida estiva a cercare qualche donna da sedurre. Sotto l'ombra della quercia ebbe un sussulto, con un verso quasi mostruoso un gatto nero spuntato da chissà dove fece quattro salti e si arrampicò sull'albero come se fosse inseguito da chissà quale mostruosità.

Leandro non era mai stato un pavido, ma neanche un cuor di leone e laggiù, solo nella notte incombente ora era spaventato e con la tremarella nelle gambe.

- Irragionevole – pensò.

Cercò di riprendere l'autocontrollo, era stato così lucido nel progettare il suo piano truffaldino che ora non poteva spaventarsi per uno stupido gatto, ma il passo si fece lesto e in un attimo svoltò dietro alla collinetta tirando un sospiro di sollievo.

Una coppia di innamorati stava venendo verso di lui, ma adesso era tranquillo, in fondo al sentiero si vedevano già le luci delle prime case. Il cielo era di un rosso cupo infiammato dalla luna che diventava sempre più grande. Due ragazzi giovani, lei bionda in jeans e maglietta, lui con una tuta grigia e i capelli neri corvino camminavano abbracciati. Il ragazzo aveva una cicatrice lungo la guancia, ma lo sfregio non spezzava l'armonia del volto illuminato dagli occhi chiari. Lei lo guardò e quasi che avesse capito il pensiero di Leandro, accarezzò il viso del ragazzo e gli baciò la gota sgualcita.

- Vero che è bello anche con la cicatrice? È un sogno meraviglioso, come questa notte luminosa.

Un sorriso increspò gli angoli della bocca del ragazzo, ma il suo sguardo fisso su Leandro era gelido. La donna incurante di questo piccolo duello fra uomini prese fra le sue la mano sinistra di Leandro e raccolse in un sorriso le pieghe del suo palmo.

- C'è un peccato nel tuo cuore, un peso leggero, ma un piccolo sasso può diventare un macigno se lo si lancia con forza contro il proprio destino.

Una risata cristallina concluse quel piccolo spettacolo lasciando Leandro inebetito mentre i due ragazzi si allontanavano correndo.

Leandro e Luigi erano amici di vecchia data, avevano iniziato insieme l'attività di ristorazione aprendo una piccola tavola calda. Gli affari andavano bene finché nella loro vita non era arrivata Laura di cui Luigi si era invaghito. Luigi era il braccio e Leandro la mente, il primo lavorava sodo, l'altro faceva pubbliche relazioni, ma a loro due andava bene così. A Laura no però, entrò con forza nella vita di Luigi difendendolo da ogni possibile attacco esterno e Leandro agli occhi di lei era un pericoloso opportunista.

Percepito il messaggio Leandro pensò che era meglio cambiare aria, svuotò il conto della società e se ne andò. Non contento fece causa a Luigi e ottenne la liquidazione della sua parte. Non completamente soddisfatto fece di tutto per distruggere il rapporto tra Luigi e Laura, ma le donne, si sa, sono tenaci e Leandro dovette cedere. Aveva comunque portato a casa un bel gruzzolo che ben investito gli avrebbe dato da vivere senza doversi preoccupare di lavorare. Luigi e Laura, invece, dovettero chiudere l'attività e ritornare al paese. Si sa, nel mondo d'oggi, ma forse è sempre stato così, vince il più forte. Non c'era alcun senso di colpa in Leandro, anzi, era perfettamente convinto di aver fatto bene. Quella zoccola di Laura e il suo schiavetto avevano ben meritato quella punizione.

Leandro rabbrividì. L'umidità della sera, nonostante fosse estate, gli penetrava nelle ossa. La leggera maglietta di cotone non bastava a proteggerlo dal vento della notte. La luna, come un enorme faro nel cielo, gli permetteva di camminare sicuro sul sentiero. All'improvviso il vento cessò, tutto intorno salì una fitta nebbia e nuvole cupe vennero a nascondere la luna.

- Che strano – pensò Leandro, mentre proseguiva sicuro sul sentiero.

Ormai era più di un quarto d'ora che camminava e avrebbe già dovuto essere arrivato alla fattoria da un pezzo. Leandro cominciò a preoccuparsi, la nebbia diventava sempre più fitta e lui sentiva sempre più freddo. Sembrava autunno inoltrato. Dopo aver camminato ancora per una ventina di minuti la nebbia cominciò a diradarsi e Leandro sbigottito si ritrovò di nuovo davanti al campo di grano. Le spighe ondeggiavano provocando un suono che sembrava un lungo inarrestabile lamento. Leandro fece per tornare indietro, ma sulla strada le mucche coi campanacci riempiti di fieno per non fare rumore gli sbarravano il passo, gli occhi iniettati di sangue. Le bestie si avvicinavano sempre di più facendo roteare gli zoccoli sul sentiero. Lo stavano accerchiando. La baldanza aveva abbandonato Leandro che, bianco come un cencio, cominciò a correre verso il piccolo boschetto dove aveva incontrato la donna dai capelli rossi. Inciampò e cadde, un dolore lancinante lo fece urlare, era caduto sul tronco divelto dove la donna si era seduta e una grossa scheggia gli aveva squarciato un braccio. Si tolse la maglietta e cercò di tamponare la ferita. Ma cadde svenuto in una pozza del suo stesso sangue.

Leandro non seppe quanto tempo passò. Riprese lentamente conoscenza e, seppure senza forze, si rialzò. Di tornare verso il campo neanche a parlarne, decise di rifare la stessa strada di prima a semicerchio e guadagnare l'uscita. La luna era tornata e la nebbia dissolta, camminando con difficoltà arrivò nei pressi del ninfeo. Le lucciole riempivano la vallata festose nel tepore estivo, ma Leandro ormai sentiva solo brividi di freddo. Le piccole luci si facevano sempre più vicine. Leandro provò una forte sensazione di claustrofobia. Gli insetti gli si raccolsero sempre più intorno. Lo avvolsero come mille api con i pungiglioni che penetravano nella pelle senza lasciare spazio neanche al respiro. Gli riempivano la bocca, si infilavano nel naso. Il dolore era incontenibile, Leandro si sentì morire e svenne di nuovo.

Sembrava passata un'eternità quando Leandro si riprese, era tutto gonfio, il sangue non usciva più dalla ferita al braccio, ma la febbre era alta e stava morendo di freddo. Si trascinò fino al ruscello per cercare di lavare via un po' di terra che gli si era appiccicata addosso, ma ormai non era più lucido, non sapeva più dove andare e cosa fare. Camminò senza meta con gli occhi così pesti che non riusciva più a vedere dove andava. Un'ombra pesante gli rubò la luce della luna. Era la quercia, non leggera e protettiva, ma crudele e carica di mille corvi che lo guardavano con crudeltà. Fece per proteggersi il volto, ma le ali si misero a sbattere tutte insieme scendendo verso di lui coi becchi che gli brandivano le carni. Mentre i pipistrelli volavano in alto incuranti del destino di un uomo anche il gatto nero lasciò il suo segno. Lo ritrovarono il giorno dopo, un corpo senza vita, irriconoscibile per le ferite che aveva riportato.

Un vecchio pastore, con solo qualche ciuffo di capelli in testa e pochi denti che facevano capolino su di un sorriso sprezzante passò di là.

 

- Se si ha il cuore greve non ci si deve avventurare nella valle della Caffarella la notte di San Giovanni. – mormorò – Le streghe tornano sempre a chiedere il conto.

 

Renato Volpone

*Incipit tratto da Niccolò Ammaniti "Io non ho paura"