La verità

C’era quell’albergo, di una eleganza un po’ appannata. Probabilmente era stato in grado, in passato, di mantenere certe promesse di lusso e garbo. Aveva ad esempio una bella porta girevole in legno, un particolare che sempre inclina alle fantasticherie. L’insegna, seppur ingrigita dal trascorrere del tempo, testimoniava con i suoi caratteri importanti e affatto sfarzosi un passato sereno e glorioso. Così mi apparve la prima volta che passai di lì. Nella quiete di un ampio giardino, pulito ma non curato, l’albergo sembrava aver accettato il suo destino con stanca rassegnazione, però non era così.

Le finestre, ormai disadorne, sembravano bocche che gridavano rabbia e rancore e, al tempo stesso, occhi che scrutavano il distratto andirivieni dei passanti sul corso principale, alla ricerca di uno sguardo di intesa, di comprensione, di speranza. Quelle finestre, buie di notte come di giorno, rallentavano sempre il mio incedere e, spesso, mi sedevo su una delle vecchie panche di pietra del giardino, fantasticando su cosa era stato quel luogo e sognando cosa avrebbe potuto essere. Già, cosa avrebbe potuto essere? Come si poteva recuperare quel vecchio edificio, che non era ancora un rudere? Rimuginavo su questo, tra me e me, ogni estate, senza riuscire a definire i contorni di un qualcosa che anche solo lontanamente assumesse le sembianze di un progetto. Finché un giorno realizzai che, come sempre accade nella vita, anche per l’albergo non si poteva progettare il futuro senza conoscere il passato. Conoscere il suo passato, però, risultò tutt’altro che facile.

- Lasci stare signora, dia retta a me. Quell’albergo porta solo sfortuna.

- Perché dici questo, Esperanto?               

Ma lui non rispondeva e ogni volta che sfioravo l’argomento, ricevevo solo frammenti di frasi poco incoraggianti. Almeno Esperanto, da cui compravo pesce fresco appena pescato tutti i giovedì, qualche parola me la diceva: gli altri abitanti del paese facevano finta di non capire e cambiavano discorso.

- Scusi, dove posso trovare la biblioteca comunale?

L’impiegato alzò su di me lo sguardo incuriosito: in tanti anni, in pieno agosto, nessun turista gli aveva posto quella domanda.

- E’ aperta, vero? – incalzai

- Si, si, signora. È aperta tutte le mattine dalle dieci alle tredici, tranne i giorni festivi.

- Oh che fortuna, sono le dieci e trenta! Se mi indica la direzione, ci vado subito.

- Beh, ecco - esitò l’impiegato – attraversando il corridoio di fronte a lei, si troverà nel cortiletto interno del palazzo comunale, al di là del quale c’è l’ingresso per la biblioteca. Ma devo prima fare una telefonata.

Così dicendo, sollevò la cornetta e, in dialetto stretto, iniziò a parlare con qualcuno di nome Maria.

- L’addetta alla biblioteca arriva subito – disse chiudendo la chiamata – nel frattempo si accomodi pure.

E mi indicò delle poltroncine in velluto blu: mi lasciai stancamente cadere su una di esse, in paziente attesa.

L’idea di indirizzare le ricerche sul passato dell’albergo verso fonti più ufficiali delle voci di paese, si stava rivelando impegnativa fin dal primo momento.

- Cos’è che incuriosisce tanto una così bella signora, che preferisce chiudersi nella nostra vecchia biblioteca piuttosto che godersi il caldo sole delle nostre spiagge dorate?

La voce melliflua del vice sindaco giunse inaspettata alle mie spalle. Probabilmente era stato avvisato dall’impiegato che, durante la mia attesa, avevo sentito fare delle altre telefonate incomprensibili. Nel rispondere, evitai prontamente l’argomento albergo, ma capii dall’espressione del vice sindaco di non essere stata troppo convincente.

In quel mentre giunse trafelata una signora carica di buste della spesa. Come se ciò rientrasse nel normale ordine delle cose, il vice sindaco le si rivolse con galanteria.

- Maria – la esortò – accompagni la signora nella visita della nostra biblioteca, ne illustri il prezioso contenuto e, mi raccomando, la aiuti nelle sue ricerche.

Colsi, per un attimo, gli sguardi di intesa che i tre si scambiarono mentre mi accingevo a seguire Maria, ma non ci feci caso, ero troppo ansiosa di scoprire il segreto di quell’albergo. 

La biblioteca occupava uno spazio non molto grande, ma ben organizzato, tanto da contenere diverse centinaia di volumi, oltre a riviste, quotidiani e una postazione multimediale. La mia professione di archivista mi consentì presto di orientarmi, evitando di chiedere troppe informazioni alla sempre presente signora Maria. A casa avevo messo a punto un piano per le ricerche, che partiva dall’anno di costruzione dell’albergo, il 1897, per mia fortuna impresso al di sopra della porta girevole. Cercai fatti, notizie, eventi accaduti nella zona intorno a quella data. Si parlava di un facoltoso proprietario terriero americano, tanto innamorato del sole e del mare che aveva deciso di investire nella costruzione di un albergo, per l’epoca moderno, a picco sulla scogliera. Già, forse avevo dimenticato di dire che il retro dell’albergo è visibile dal mare. Trovai anche riferimenti a ospiti illustri, feste e banchetti che avevano animato e illuminato quelle grandi sale, ormai vuote e spente. Poi, quando il magnate americano venne a mancare, gli eredi per qualche tempo continuarono a gestire l’albergo, ma sempre con minore entusiasmo ed impegno, finché decisero di non dedicare altri dollari all’impresa. Quasi all’orario di chiusura, ringraziai la signora Maria e rientrai a casa, per niente appagata dalla mia ricerca, c’era qualcosa che non mi convinceva. In piena notte fui svegliata da un’intuizione: come mai in poche ore ero riuscita a trovare agevolmente tante informazioni sull’albergo, mentre in paese nessuno ne voleva parlare? Davanti a una tazza di caffèlatte, come fosse la prima volta, rividi gli sguardi del vicesindaco e degli impiegati, percepii l’ansia della signora Maria mentre giravo tra gli scaffali della biblioteca e riascoltai quelle telefonate in dialetto stretto, di cui ora la mia mente ricordava in particolare una parola ricorrente. Provai a scriverla in internet con diverse varianti, finché non comparve la traduzione italiana: persona curiosa, più propriamente un ficcanaso. Tutta una montatura, ecco cos’erano le informazioni trovate tanto facilmente. Allora c’era sotto qualcosa di grosso, che un intero paese voleva nascondere. Ma cosa? Non dovevo assolutamente far capire di aver smascherato il loro gioco, così decisi di contrattaccare, avvalendomi di un aiuto esterno. Chiamai un amico della Soprintendenza di Roma, gli spiegai tutto e lasciai a lui individuare la via ufficiale per reperire le vere informazioni sull’albergo. Vistosi assediato dall’amministrazione centrale, il piccolo comune entrò nel panico. Il vicesindaco venne destituito e fui contattata dal sindaco in persona, rientrato da pochi giorni da una lunga assenza per motivi di salute.

- Gentile signora – mi disse – ho saputo del suo interesse per il nostro albergo. La invito questa sera alle ventidue per una visita da me guidata. Le chiedo la cortesia di non farne parola con nessuno.

Alle ventidue meno cinque minuti, nel giardinetto antistante l’albergo, avevo il cuore in gola per quello che avrei visto di lì a poco. La mia curiosità era stata così tanta, che ora avevo quasi paura ad entrare. Il sindaco, un distinto signore sulla sessantina, dai modi gentili e sinceri, se ne accorse subito.

- Nulla di quello che lei possa aver pensato in quest’ultimo periodo è lì dentro – mi tranquillizzò.

Così dicendo, si incamminò verso la porta girevole: l’interno era spoglio e illuminato dai soli lampioni della strada e dal faro del porticciolo. Dell’antico mobilio non era rimasto nulla, neanche un quadro o un vecchio tappeto. Seguii cauta il sindaco mentre scendeva una scala a chiocciola che conduceva ad una porta metallica, che aprì, digitando un codice su un display nel muro. Quella tecnologia stonava con l’età dell’albergo: ma cosa si nascondeva dietro tanta modernità?

Entrammo in un laboratorio illuminato a giorno da luci artificiali. Lungo le pareti c’erano delle teche contenenti una pianta dalle foglie violacee, sicuramente non autoctona, nei diversi stadi della crescita. Il sindaco sorrise guardando la mia fronte corrucciata: nella mia mente si affollavano milioni di domande.

- Questa pianta ce la lasciò, prima di morire, un aviatore americano alla fine della seconda guerra mondiale, quando il suo aereo precipitò sulle nostre spiagge. L’aveva ricevuta da un’antica popolazione che viveva lungo le coste del Mar d’Indocina, bella e longeva grazie alle eccezionali proprietà terapeutiche del fiore, che germoglia ogni dieci anni.

- Ma perché tanti segreti? – replicai, infastidita da quanto stavo ascoltando – Volete tenere la pianta tutta per voi e non condividere con il resto del mondo le sue proprietà miracolose?

Il sindaco si aspettava questa mia reazione.

- La pianta ha da subito attecchito – continuò calmo – probabilmente ritrovando nel nostro mare un microclima favorevole. Ma è molto delicata e si riproduce spontaneamente con grandi difficoltà. I cambiamenti climatici e l’inquinamento degli ultimi decenni hanno messo in serio pericolo la sua sopravvivenza e così abbiamo deciso di creare questo laboratorio, finanziato da tutta la comunità e diretto da un nostro geniale botanico, famoso anche all’estero.

- Non crede che avete peccato di presunzione? – chiesi, visto che ancora non riuscivo a capire il suo punto di vista – Come avete potuto pensare di riuscire a portare avanti da soli un progetto così ambizioso? Avreste potuto distruggerla per sempre!

Il sindaco si avvicinò alla prima teca, dove si intravedevano le foglioline di una nuova pianta.

- Per noi ha un alto valore simbolico – mi confessò palesemente emozionato – rappresenta la rinascita, dopo gli anni di sofferenza della guerra. Quando germogliò la prima volta, provammo una gioia indescrivibile, ritrovammo l’entusiasmo verso il futuro e decidemmo di tutelare questa pianta ad ogni costo. Condividerla con altri, avrebbe comportato comunque la sua morte, fisica, nel caso fosse caduta in mani inesperte, o morale, nel caso fosse stata acquisita da qualche industria poco etica.

Cominciai a rilassarmi.

- Per convincerla di quanto ciò sia vero, la invito fin d’ora al prossimo decennale, che sarà giusto tra un anno. L’intera comunità si riunisce in questi ambienti, tra tristi ricordi, purtroppo mai sopiti e speranze sempre nuove.

Solo allora mi resi conto che ero stata io e non loro, a peccare di presunzione.

L’essere andata lì in vacanza per diversi anni non significava far parte della comunità e non mi attribuiva, quindi, alcun diritto di giudizio o di intromissione in un mondo che non era il mio.

Mi avevano messo a disposizione il loro mare pulito e scintillante, il loro sole caldo, il loro cielo azzurro, ma non potevo e non dovevo pretendere di più. L’anima di una comunità è qualcosa di diverso, che non si trova esposta in nessun depliant turistico.

 

Cinzia Pacelli