Mario

La bicicletta era per Mario una seconda pelle.  Fin da bambino era la sua passione, non ricordava neanche lui quando aveva imparato, forse su quella di un amico, perché i suoi erano gente semplice che non poteva permettersi una bicicletta nuova.

Ma ora, a trentotto anni, la bicicletta era sua e la usava ogni momento che poteva,  sia per lavoro che per divertimento.

Ormai  aveva anche una famiglia sua, si era sposato con Fernanda e la piccola Adriana era nata nel 1947.  Sentiva a volte il desiderio di avere un altro bambino, ma sapeva che Fernanda era un po’ restia, aveva già perso una prima bambina nel 1946.

E aveva anche una casa nuova, nel novembre dell’anno precedente la Santa Sede gli aveva assegnato un piccolo appartamento in un nuovo palazzone periferico oltre i due ponti della ferrpvia, dove si diceva dovesse costruirsi una grande strada che sarebbe stata la nuova Via Aurelia.

In quell’estate del 1951, spesso il pensiero andava ancora alla guerra appena finita, alla fame sofferta, alle paure quotidiane  dell’occupazione nazista a Roma.

Mario non dimenticava mai quel giugno del 1944 quando, pochi giorni dopo che gli Americani avevano liberato Roma, lui e un suo cugino vollero andare in bicicletta a vedere la condizione di Anzio.

“Devastazione” forse non è un termine sufficiente per rendere l’idea: praticamente andarono a piedi, perché la Via Nettunense era solo una grande serie di buche provocate dalle bombe e la cittadina di Anzio…beh, meglio non ricordare!

Ora si sentiva sereno, guardava avanti e lavorava con passione.

Era un Sanpietrino da quando aveva  undici anni ma,  avendo studiato fino all’ottava classe e sapendo scrivere a macchina e conoscendo bene l’inglese, l’ingegnere Architetto della Fabbrica di San Pietro (per intendersi , il successore di Michelangelo), dal 1943 lo volle con sé negli uffici.

Talvolta c’era bisogno anche di aiuto materiale e quella mattina di fine agosto del 1951, caldo e afoso come sempre a Roma, doveva consegnare del materiale di mosaico ad un istituto esterno.

Aveva sudato parecchio, guidando la bici con una mano sola e trasportando il pacco sulle spalle. Ora stava rientrando in ufficio e si avviava ad oltrepassare l’Arco delle Campane, ventoso in qualsiasi stagione, desideroso come non mai di scendere dalla bici, bere acqua fresca e asciugarsi il sudore.

Qualcosa la disturbò: sentì in mezzo al petto una sensazione strana, come di una piccola bolla che esplodesse.  Non diede importanza alla cosa, terminò il suo lavoro e alle 14 andò a casa.

Col passare delle ore, iniziò a sentirsi strano. Fernanda si accorse che aveva la febbre e lo mise a letto, sicura che fosse solo un colpo d’aria e che in poco tempo sarebbe passato tutto.

Invece era solo l’inizio.

La febbre non passava, Fernanda chiamò il vecchio medico di casa che diagnosticò una bronchite.

La tosse cominciò a scuoterlo, e i rimedi in uso, sciroppi e cataplasmi, non facevano nessun effetto. Gli antibiotici in Italia non erano ancora di uso comune, per cui i medici sapevano dare solo quei pochi medicinali che conoscevano.

Passarono vari giorni, ma la situazione non era affatto rosea: Mario peggiorava, la febbre era sempre alta e la tosse....povero Mario, era uno strazio.

I suoi superiori della fabbrica di San Pietro presero a cuore la situazione, mandarono un medico più illustre, ma il risultato non fu diverso: furono date medicine più forti, ma per Mario furono acqua fresca.

Fernanda ormai era preoccupata seriamente: aveva una bambina di quattro anni, era casalinga -  allora era la condizione di quasi tutte le donne -  e non sapeva a che santo votarsi.

Tra un’agitazione e un’altra se ne andarono più di due mesi: Mario non migliorava e nessuno sapeva come guarire questa “bronchite” che lo scuoteva e ormai lo aveva indebolito in modo piuttosto grave.

La svolta arrivò inaspettatamente: l’infermiera che gli faceva le punture era la portiera di uno stabile vicino e, vedendolo sempre più malridotto, si permise un suggerimento: consigliò un maggiore medico del Celio, che abitava nel suo palazzo ed era specialista dei polmoni.

Fernanda era scettica, ormai credeva poco nei dottori, ma ascoltò il consiglio, -tanto – pensò – peggio di così….-

Il medico fu chiamato, arrivò presto e si mise a visitare attentamente Mario, una lunga visita che non terminava mai. Poi si rivolse a Fernanda e le fece una domanda che, alla piccola Adriana che girava per casa spaventata e trascurata, parve strana: -Avete un telefono? - 

Lo avevano, fortunatamente nella casa nuova Mario aveva voluto allacciare una linea telefonica.

Il medico chiamò qualcuno con voce concitata, dopo pochi minuti arrivò un’ambulanza che portò  Mario  all’ospedale Fatebenefratelli, all’Isola Tiberina.

-Non si preoccupi, signora, ora sarà in buone mani. Signor Mario, anche lei stia tranquillo, lì ci sono molti medici bravi in questo genere di malattie, presto si rimetterà completamente.-

-Di cosa si tratta, dottore? – chiese Mario

-Suppongo una pleurite, ma in ospedale vedranno meglio e inizieranno subito le cure più adeguate.-

Non disse quanto fosse seria la situazione, Mario era gravissimo. Si trattava di un pneumotorace spontaneo, complicato dalla pleurite. Oggi si cura con una settimana di antibiotici, ma allora…..

Mario fu travolto dagli eventi: i medici iniziarono le cure e ricordava, quando tutto era finito, che gli iniettavano siringhe piene di “streptomicina”, come la chiamavano, che era un antibiotico appena in uso in Italia.  Gli toglievano anche il liquido dai polmoni con una lunga siringa, per curare la pleurite.

Le sue condizioni erano gravi, e rimase tre mesi tra la vita e la morte. Ricordava di sentirsi molto debole, di non riuscire a mangiare nulla, beveva solo le spremute di arancia che Fernanda gli portava tutti i giorni. Non lo lasciavano solo neanche la notte, per la quale si alternavano la moglie e le sorelle.

Ricordava che qualcuno gli disse che era Natale, i frati dell’ospedale non lo perdevano mai di vista. Un motivo di gioia fu l’Epifania quando per la piccola Adriana la Befana arrivò in ospedale, portandole la stanza e la cucina per la bambola che tanto aveva desiderato.

 A volte si arrabbiava con Fernanda perché portava sempre con sé la bambina.

-Portala via di qui- la sgridava – lasciala alle tue cognate, non portarla sempre a vedere questi spettacoli!- Ma Fernanda aveva un amore morboso per la piccola, non sapeva stare senza di lei e non capiva quanto male le facesse.

Poi, lentamente, Mario iniziò ad uscire dal buio.

Il suo fisico giovane e forte ebbe la meglio, ma la convalescenza fu lentissima, era debole non solo per la malattia curata troppo tardi, ma anche per i tre mesi di letto che oggi i medici non permetterebbero a nessuno, neanche per patologie molto più gravi.

In quel febbraio del ’52  iniziò una nuova vita. A casa piano piano si riprese, ma non tornò mai più l’uomo robusto di un tempo.

Dovette dimenticare la bicicletta e il mare, perché i medici gli consigliarono di soggiornare d’estate in un luogo fresco in collina. Dovette abbandonare le amate sigarette, perché la malattia gli aveva lasciato un polmone secco e le sigarette sarebbero state molto dannose.

Dopo qualche mese riprese a lavorare, magro e spaurito e lentamente la vita ebbe la meglio.

Col passare degli anni si tende a dimenticare (per fortuna), Mario però fece un grande errore: riprese a fumare.

Nel giro di pochissimo tempo una tosse fastidiosa iniziò a scuoterlo e presto si trasformò in bronchite cronica.

Era un uomo allegro e di buon carattere e al mattino davanti allo specchio, mentre cantava romanze d’opera, veniva colto da accessi di tosse da far paura. Ancora non si conoscevano i danni del fumo e nella sua situazione, poi, l’effetto fu accentuato e la bronchite cronica gli portò l’insufficienza cardiaca.

A sessant’anni ebbe il primo ictus senza conseguenze, ma il secondo, a sessantaquattro anni, fu invalidante. Rimase in carrozzina fino alla morte, sette anni dopo, sempre lucidissimo e allegro, curato con amore dalla moglie e dai familiari.

L’amatissima nipotina ricorda sempre che “nonno  mi lasciava due prugne”, che lui sottraeva alla sua razione serale di prugne cotte per darle a lei che ne era ghiotta.

 

Chi legge pensa che mio padre fosse un uomo “malato”.

Mio padre era un uomo allegro, intelligente, sempre pronto alla battuta, amante della vita. Avrebbe girato il mondo, se ne avesse avuto la possibilità, e mi ricordo che da bambina mi portava alla Stazione Termini a vedere i treni e al porto di Civitavecchia o di Anzio a guardare le navi.

Solo nel 1969 ebbe la possibilità di comprarsi un’automobile. Prendemmo la patente insieme e per qualche anno si godette con felicità la possibilità di fare qualche viaggio.

Il viaggio che ricordo con più commozione fu nella primavera del 1973, quando andammo in Puglia a conoscere i miei futuri suoceri: era felicissimo e colse l’occasione per visitare parecchi luoghi belli della regione.

Purtroppo, nel dicembre successivo iniziò a stare male e pian piano l’auto dovette accantonarla. Ma rimase allegro fino alla fine, quando mi ha lasciato con le mani strette nelle sue.

 

 

Adriana Pieroni                                                          settembre 2014