Orologi

“Grazie. Parlerò con mio marito.”

 

Quando mia madre pronunciava quella frase, sapevo per certo che non saremmo mai più entrate in quel negozio. Poteva succedere perché, chiedendo un prezzo, la cifra rivelata dal negoziante fosse troppo alta oppure perché l’oggetto che l’aveva attratta, visto da vicino, non fosse così interessante o di buona qualità.

 

Quel giorno, ormai adulta, la sentii pronunciare ancora una volta quella frase anche se mio padre era morto da un pezzo. Lei si avviò verso l’uscita ma io, anziché seguirla, mi soffermai a guardare l’affascinante esposizione di quel grande negozio.

 

Orologi d’ogni tipo facevano bella mostra di sé in un grande ambiente che doveva essere stato elegante ma che ora, sovraccarico di merce, appariva vecchio e polveroso.

 

Antichi orologi a pendolo, nel loro mobile di legno scuro, mi osservavano severi. Mi sentivo piccola piccola vicino a loro e preferii passare nella sala degli orologi a cucù. Erano tutti in funzione e tutti insieme davano vita ad un allegro vortice di catenelle in movimento, pigne dondolanti, altalene e figurine di ogni tipo indaffarate a segnare il tempo.

 

E fu lì che il mio tempo si fermò.

 

Mi incantai a guardare un complesso orologio di legno: un girotondo di figurine colorate entrava in una porticina a forma di cuore, scomparendo all’interno per poi riapparire dalla porticina accanto.

 

Ero sicura che le figurine colorate mi sorridessero. Ma certo! Mi stavano invitando ad unirmi a loro.

 

Fu un attimo, chiusi gli occhi e, non so come, mi ritrovai nel girotondo dell’orologio a cucù. Continuavano a sorridermi e fu allora che mi accorsi che le figurine avevano il volto delle mie compagne di scuola: le compagne delle elementari! Ero tornata bambina tra le bambine che avevano accompagnato la mia infanzia in quella scuola di suore che ancora ricordo con tenerezza. Una villetta in mezzo al verde, poche classi e le suore, tedesche, che insegnavano l’italiano. Allora per me era una cosa naturale, ora mi sembra un po’ buffo.

 

Le bimbe che mi tenevano per mano, mentre cercavo di ricordare i loro nomi, divennero improvvisamente serie e mi accorsi che il girotondo si era spezzato in una fila ordinata.

 

Entrando dalla porticina a forma di cuore, ci ritrovammo all’interno dell’orologio, in una grande sala popolata dai personaggi delle favole. Ognuno di loro, in un modo diverso, dava luce alla sala. Trilly, spargendo la polvere magica, lasciava dietro di sé una scia luminosa, una miriade di stelline brillanti tempestava l’abito della festa di Cenerentola e il pugnale di Peter Pan, inoffensivo, mandava bagliori accecanti. La bella addormentata poteva toccare il suo fuso, tutto d’oro, senza pericolo e i tre porcellini entravano e uscivano dalle loro casette illuminate dall’interno da una luce intermittente che le faceva somigliare a fari in mezzo al mare e nessun lupo tentava di abbatterle. Dumbo volava felice sotto l’alto soffitto tenendo ben stretta nella proboscide una grande torcia con la quale faceva “scherzi luminosi” a chi era giù. Perfino la regina cattiva di Biancaneve contribuiva con i suoi preziosi gioielli a dare luce all’ambiente.

 

Improvvisamente, però, si fermarono tutti e anche noi, tenendoci ancora per mano, ci fermammo in semicerchio per capire cosa stesse succedendo. Tutte le luci si spensero e la grande sala piombò in un buio profondo. Non capivo. Nessuno mi dava una spiegazione. Non vedevo più le mie compagne e non sentivo la loro presenza vicino a me. Perché ero capitata lì dentro? Come avrei potuto spezzare l’incantesimo?

 

Lentamente le tenebre si diradarono. Sparita la sala, spariti i personaggi delle favole. Mi guardai intorno e uno scenario meraviglioso si offrì ai miei occhi.

 

La luce del mattino inondava le colline verdi che mi circondavano ed io, tornata adulta, camminavo nel sole, ancora basso, lungo un viale di ippocastani che mi offrivano il profumo dei loro grandi fiori .

 

In lontananza, vidi venirmi incontro un’alta figura, familiare ai miei ricordi. Bruno e sorridente, mi passò vicino sfiorandomi una guancia. Andò oltre e, voltandomi indietro, lo vidi allontanarsi lentamente.

 

Continuai a camminare mentre il sole si faceva più alto e più caldo. L’ombra accogliente di una grande quercia mi invitò a fermarmi. Con gli occhi chiusi, respiravo profondamente l’aria profumata; diventavo anch’io un albero, un fiore, il vento leggero che lambiva l’erba rigogliosa.

 

Ancora con gli occhi chiusi percepii una presenza dietro di me: mi voltai con un sussulto e fui subito rassicurata da due occhi grigi un po’ tristi che contrastavano col bel sorriso franco e birichino che illuminava la barba dai riflessi ramati. Mi disse il suo nome porgendomi la mano: un lampo dei suoi bianchissimi denti e si allontanò subito dopo.

 

La serenità dell’ambiente e la quiete del mio stato d’animo rimasero increspate da quella fugace presenza. Superato lo stupore, ripresi la mia passeggiata. Dopo poco , seduto ai piedi di un albero, intento a suonare la chitarra, rivedo l’enigmatico personaggio che mi invita a salire sulla sua motocicletta parcheggiata poco lontano. Non ebbi nessuna esitazione e mi feci condurre, senza pormi domande, dove lui decideva di andare, fino a quando il sole lasciò il posto alla luna.

 

                                                                               o o o

 

Fuori dal negozio di orologi non ritrovai mia madre ma un sorriso luminoso dentro a una barba ramata.                                          

 

(Rossana Bonadonna)