Risveglio

La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano le 5.30 e la sua camera da letto era inondata da una luce dorata, come solo l’alba della sua città sapeva creare*.

La sua città… qual era la sua città? Dove si trovava esattamente in questo nuovo risveglio? Nina provò, di nuovo e come sempre, quella terribile sensazione di panico. Era l’unica sensazione reale e consistente in cui riconosceva se stessa; sempre legata ad un momento di piacevolezza, come lo era stato quel risveglio, da cui repentinamente sfociava un’angoscia profonda: alterazione del battito cardiaco, sudore freddo e quel pungente e strano prurito al palato. Dove si trovava dunque stamattina? Era mattina, almeno così le sembrava. Ricordava solo di essersi fatta una doccia prima di andare a dormire, aveva ancora nel naso l’odore di un pessimo detergente, comprato chissà quando e chissà dove, al frutto della passione.

- Frutto della passione, io odio il frutto della passione, l’odore mi fa venire la nausea – disse a voce alta, cercando di ancorare a tale, seppur esile certezza, lo sforzo necessario ad uscire dallo stato di angosciato smarrimento in cui si trovava e da ciò trarre la forza per tentare di ricordare, di rimettere insieme i pezzi.

L’odore riempì la stanza e le narici, la gola e i polmoni. Chiuse di nuovo gli occhi per lo stordimento. Li riaprì dopo qualche secondo, ancora supina sul letto, con l’ultima immagine nella mente, quella che aveva visto prima di richiuderli: una stanza da letto con le pareti acqua marina, arredata con pochi mobili di legno chiaro; ricordava lo specchio, di fronte al letto, sobrio con una cornice semplice, color argento. Ora la stanza era diversa, era un’altra stanza: le pareti erano viola, c’era un armadio che prima non c’era e dall’altra stanza qualcuno la stava chiamando; forse no, anzi sicuramente no, non chiamava lei, poiché la voce che proveniva da altrove era quella di una bambina che gridava “mamma”.

- Maaaaaaammaaaaaaaaaaa, svegliati dormigliona! Possibile che debba essere la figlia tredicenne a svegliare la mammina, molto più “…enne”, per sollecitarla ad andare a messa, che le sue amiche del coro la stanno aspettando?

A parlare era una graziosa ragazzina, che, con passo svelto e deciso, entrò nella stanza recando con sé un vassoio carico di leccornie per la colazione. Una ragazzina bionda, longilinea, con un grazioso visetto ricoperto di lentiggini; voce squillante, naso all’insù … vestita però un po’ troppo retrò.

- Cosa dirai alle tue compagne di canto? Scommetto che darai la colpa a me: “E’ Nina che mi ha fatto far tardi stamattina” – continuava la ragazzina posandole il vassoio in grembo.

Nina? aveva dato a sua figlia, doveva esserlo se la chiamava mamma, il suo stesso nome? La guardò attentamente, c’era qualcosa che riconosceva in quell’adolescente dall’aria apparentemente sbarazzina; sebbene di gusto antico, riconosceva le scarpe bianche allacciate alla caviglia, sentiva un profumo di acqua di colonia familiare e … quell’acconciatura, Nina era pettinata come la pettinava sua mamma a quell’età… Tornò il panico, se mai se ne fosse andato, si fece forza per non svenire, si puntò sui gomiti e si alzò dal letto per guardare negli occhi i propri occhi, per sentir la sua stessa voce, per incontrare se stessa all’età di 13 anni. Allungò una mano per prendere la tazza di tè che Nina le stava porgendo e ricordò: era una mattina di 25 anni prima, la mattina del giorno in cui aveva accompagnato la sua mamma al coro della parrocchia del quartiere. Aveva cantato benissimo la sua mamma quel giorno, la direttrice del coro le aveva concesso di eseguire quell’assolo per cui si preparava da mesi. Papà non c’era, non era riuscito a liberarsi dal lavoro, i partner giapponesi della società di telecomunicazioni per cui lavorava avevano voluto esser portati a spasso per Roma quella mattina. Dunque erano andate solo loro due in Chiesa, prima la messa poi l’esibizione del coro. Nina si era di proposito alzata presto con l’intenzione di coccolare un po’ la mamma che sapeva emozionata e nervosa per la prova che la attendeva. Si era vestita al meglio, indossando gli abiti e gli accessori che sapeva lei avrebbe apprezzato, le aveva preparato la colazione, caffè forte e pane tostato con miele e pinoli e gliela aveva portata a letto. Poco più tardi si erano dirette alla Parrocchia di San Mattia e la mamma era stata davvero brava; tutto il coro lo era stato, ma lei di più! Poi erano uscite dalla Chiesa.

- Nina – le aveva detto la mamma – mi sento felice oggi, ho fatto qualcosa da sola, ho raggiunto il risultato che mi ero prefissato, il mio assolo è stato fantastico non è vero? La tua mamma quindi sa cantare, non è capace solo di lavare, stirare, cucinare, badare alla casa insomma. E chissà quante altre cose sarei in grado di fare se solo ci provassi e mi impegnassi! Sono felice e voglio condividere con la mia adorata figlia questa inaspettata gioia.

Nina era stata felice anche lei quella mattina, come non lo era mai stata, al cospetto di una nuova mamma, una mamma diversa, non rigida ed austera come al solito, passionale! Entrarono in un bar ed ordinò un tè aromatizzato con dei pasticcini, andava di moda, faceva chic a quei tempi, gusto frutto della passione. Fu proprio mentre assaporava l’ultimo sorso di tè rimasto nella tazza, intenta a catturare la scorza di limone che aveva voluto comunque, anche se il barman gliela aveva sconsigliata data la commistione di gusti poco affini, che entrò il rapinatore nel bar. Dapprima sgomento e silenzio, poi urla, confusione, tormento. Partirono dei colpi; il proprietario del bar aveva da poco comprato un’arma per difendersi, diceva lui, dai furti e dalle rapine, che ormai in quella zona erano all’ordine del giorno. Ma quell’arma non la sapeva usare e quella mattina, nell’intento di difendersi, diceva lui, il proprietario dell’elegantissimo e frequentatissimo bar della piazza, pose fine alla vita della sua mamma.

La stanza da letto tornò ad essere acqua marina, la tazza le cadde dalle mani, dunque si era realmente alzata dal letto ed aveva preso quel tè? Alzò lo sguardo dai propri piedi fradici e davanti a sé trovò un giovane uomo e due persone, una donna ed un uomo anziani.

- Ti abbiamo ritrovata, Nina finalmente, sei viva, sei tu!.

Chi erano quelle persone, era ancora in preda alle allucinazioni? Cosa volevano da lei e perché quella dannata stanza non smetteva di girare?

- Signora Magri, si sieda, la prego – disse il giovane uomo – sono il Dr. Parsi.

Le strinse la mano, porgendole con l’altra un bicchiere d’acqua.

- Si trova nella clinica Morato, dove è stata condotta da suo marito un anno fa. Venticinque anni or sono lei assistette ad un crimine, una rapina in un bar, mentre era in compagnia di sua mamma. Ha appena rievocato l’evento nell’esperimento di ipnosi autofluente a cui è stata sottoposta.

Nina sgranò gli occhi, si sentiva stanca, immensamente stanca e confusa, ma si accorse che il tremore era cessato e il panico aveva lasciato il posto ad una sensazione di impazienza ed aspettativa. Guardò prima il medico, come si chiamava?  Dottor? E poi la coppia di anziani che sostava al lambire della porta di ingresso. Avevano entrambi l’aria al contempo spaurita ed eccitata e la donna aveva il viso irrigato di lacrime. L’uomo le stringeva la mano.

- Si vogliono bene – pensò Nina – e da tanto tempo se ne vogliono, sono una coppia.

- Chi sono loro? – chiese al medico.

- Iris e Giordano Magri, i suoi genitori.

Di nuovo un turbinio di sentimenti e sensazioni; l’impazienza fu sopraffatta dalla rabbia ed il sudore tornò ad infradiciarle il viso ed il collo.

- Non possono esserlo – gridò – mia mamma è morta venticinque anni fa, io c’ero, e non ho più vissuto da quel momento. Siete forse di nuovo tutti malefiche visioni, anche lei dottore lo è?

Voleva alzarsi dalla sedia, ma non ci riusciva, c’era qualcosa che la inchiodava seduta; chi erano quelle due persone?

- Nina tesoro calmati ci siamo ritrovate finalmente. Nel bar quel giorno sono stata ferita, gravemente, ma non sono morta.

Ora era Nina che piangeva: calde e copiose lacrime le inondavano il viso.

- Sua mamma venne ferita gravemente – iniziò il medico – il proiettile le forò un polmone. In ospedale lo estrassero, ma l’operazione fu molto importante e rimase in coma per più di un anno. Lei Nina fuggì o, per meglio dire, si dissolse nel nulla. Un giorno suo padre la accompagnò in ospedale a far visita alla mamma. La vide piangere e disperarsi davanti al suo letto, ripeteva che avrebbe dovuto essere più attenta, che il suo modo di stare sempre con la testa tra le nuvole, il suo crogiolarsi a bere quel dannato tè, non le avevano permesso di percepire il pericolo ed evitare la tragedia. Suo padre si allontanò alla ricerca di un medico o un’infermiera che potessero somministrarle qualcosa per calmarla. Quando tornò lei non era più nella stanza né in nessun altro posto. Sua mamma uscì dal coma 2 mesi dopo. Da allora i suoi genitori non hanno mai smesso di cercarla.

Nina ebbe di nuovo un capogiro e ancora non riusciva ad alzarsi. Vide un uomo entrare nella stanza e riconobbe Carlo, suo marito. La guardava fissa negli occhi, con quel sorriso buono che, si rese conto, le mancava immensamente. Le sembrava di non vederlo da tanto tempo, sì, un anno forse.

I suoi genitori, o coloro che dicevano di esserlo, si avvicinarono a lei, si chinarono e le presero le mani tra le loro.

- Non è tardi, non è mai tardi per essere felici e ne vale sempre la pena – disse la mamma.

- È vero – pensò Nina – me lo diceva sempre. Spero che questo sia l’ultimo risveglio.

Si abbracciarono.

 

Federica Sbaraglia

 

*Incipit tratto da Marc Levì, Se solo fosse vero