Take me home

La piccola sveglia sul comodino suonò. Erano le 5:30 e la sua camera da letto era inondata di una luce dorata come solo l’alba della sua città sapeva creare*. Conosceva bene quel chiarore, che sin da bambina aveva accompagnato i risvegli. Lo accostava al profumo di caffè che i genitori preparavano, mentre la sigla del tg5 segnava l’inizio di un nuovo giorno; al veemente chicchirichì che il gallo della vicina utilizzava per disturbare il circondario; al dolce bacio che il marito le stampava in fronte prima di confondersi nel rumoroso traffico di mestieranti della prima ora; al sordo silenzio della solitudine. Solitamente quel bagliore la destava, ma non del tutto. In un soave dormiveglia si rigirava nelle coperte, sospesa tra due mondi, la notte e il giorno, la luce e l’oscurità, la quiete e la tempesta, prima che Carl, il buffo gattone bicolore decidesse che era ora di coccole e fusa, era tempo di morire in piedi.

Ma quella mattina Carl non arrivò a sconquassare il sonno. Niente miagolii e lingua rasposa sulla pelle. La confermata mancanza del quadrupede fu più assordante della sveglia rumorosa. L’assenza a volte sa essere più manifesta di una presenza vuota. E così Jane spaventata e completamente tremolante, dopo aver scostato le lenzuola, cercò con un click di accendere il lume posto sul comodino. L’interruttore non rispose al comando e quel felice bagliore mattutino, si trasformò nell’oscurità più tetra.

Provò a chiamare il gatto:

“Carl pappa! Carl vieni?”

Ma non ci fu risposta, nessun segnale che confermasse la vicinanza del felino.

Prese coraggio e decise di affrontare l’ignoto. Con molta cautela scese dal letto, appoggiando molto lentamente il piede sinistro, poi il destro. Si arrestò un attimo , quasi a voler prendere fiato seduta sul materasso e poi si avviò. Le prime luci dell’alba l’aiutarono ad andare avanti verso la cucina. Certo i led sparsi per tutta casa sarebbero stati d’aiuto, ma come per il lume sul comodino, anche le altre apparecchiature elettriche avevano dato forfait. Ad ogni passo l’ansia cresceva, insieme ad una sospetta nausea. A Jane sembrava di camminare quasi al buio sul corridoio di un’imbarcazione, nel bel mezzo di una tempesta. Man mano che proseguiva appoggiandosi alle pareti di casa la chinetosi aumentava. A tratti sembrava come se gigantesche onde stessero scagliando tutta la forza devastante contro l’abitazione, per poi risucchiarla nella risacca e ricominciare il giro. Si, la sensazione era proprio quella lì, quella di essere nell’occhio di un uragano in mezzo all’oceano. In questo andirivieni nauseabondo, Jane pensò di sognare, di essere semplicemente la protagonista di un brutto incubo. Ma i pizzichi auto inferti palesemente andavano in un’altra direzione.

Arrivò tentoni alla porta di legno rovere che la separava dalla cucina. Era semi chiusa. Dal rettangolo di vetro posto al centro dell’uscio filtrava luce,tanta luce, troppa luce. Posò la mano sulla maniglia d’ottone, incerta sul da farsi. Dall’altro lato ci sarebbe potuta essere qualsiasi cosa.

E Carl? Dov’era Carl?

Il cuore cominciò a pompare a mille, quasi volesse uscire dal petto.

“Uno, due, tre apro!”

A prima vista in cucina tutto era regolare, tutto come al solito. Ma c’era un piccolo particolare, una stonatura che rendeva la copia diversa dalla tela originale. Il micio era in piedi su due zampe, su una sedia davanti alla finestra, con gli arti anteriori poggiati sul davanzale. Era impassibile,imperturbabile e fissava il vuoto aldilà dei doppi vetri termici.

“Carl!” provò a scuoterlo.

“Carl vieni da mamma!”

Ma il felino non si mosse. Sembrava imbalsamato. Una statuetta vintage di porcellana, pietrificata davanti al nulla.

Rasserenata decise di raggiungerlo. Probabilmente qualche uccellino stava rapendo la sua attenzione. Ma abbandonata la maniglia della porta a cui si era poggiata ed entrata in campo aperto in cucina, l’ennesima folata fece tremare la villetta e Jane si trovò scaraventata a terra.

“Il terremoto!” urlò, ma Carl era lì, sempre fermo come un palo della luce durante una bufera di vento, pioggia e grandine.

Strisciando a fatica, con un’anca sferzata dal dolore della caduta, raggiunse finalmente il gatto, che solo allora si accorse di lei. Girò per brevi istanti la testolina verso Jane, per tornare subito a guardare altrove.

“Ma che ci sarà mai di così interessante?” pensò fra se , mentre ancora scossa si fece forza sulla sedia su cui Carl era bloccato come una guardia Svizzera, a piantonare l’esterno.

Le scosse di terremoto sembravano finite, ma rimessasi in piedi, Jane rischiò l’ennesimo tonfo. Non per il tremore questa volta, ma per ciò che vide oltre la vetrata della cucina. I gabbiani volavano all’altezza della finestra, le nuvole pascolavano, ma nella direzione opposta. Non più su, ma sotto, in una distesa d’aria al di sopra della quale Jane e Carl stavano lievitando. E la città si stagliava lontana centinaia di metri più in basso, mentre padroncina e micio si godevano la scena.

Non seppe quantificare il tempo speso a fissare il vuoto più colmo mai visto. Estasiata dal panorama rimase a squadrare la curvatura terrestre che si lasciava intravedere all’orizzonte. E più la casa si muoveva, più aveva voglia di catapultarsi aldilà della linea arcuata. Mare, terra, case, colline, laghi, fiumi, cielo. Esaminava e immaginava allo stesso tempo uno spettacolo naturale maestoso.

D’un tratto il miao di Carl la riportò alla tragica realtà. Il felino abituatosi all’estemporanea normalità , era vicino alla ciotola vuota e chiedeva cibo…razionalità.

Jane cominciò a correre impazzita per casa, urlante,

“Aiuto, aiuto! Qualcuno chiami i pompieri! Aiuto, aiuto! La mia casa sta scappando!”

Inciampava, cadeva, si risollevava e scorazzava intorno al tavolo. Carl la rincorreva per gioco, cercando con la zampa pelosa di stopparla. Sembrava un film muto in bianco e nero, con la pellicola che va avanti a scatti rapidi, meccanici, rumorosi. Comiche degli anni 2000.

Jane acchiappò il cordless e continuando freneticamente a muoversi senza senso, compose il 112.

“Pronto 112.”

“Aiuto aiuto! Casa sta volando!”

“Signora qui non stiamo giocando.”

“Aiuto! Deve credermi. Sto volando con tutta la mia casa!”

“Signora ha chiamato il 112, non il centro per l’igiene mentale. Buona giornata!” interruppe severamente la comunicazione l’operatore.

Col fiatone fu costretta finalmente a fermarsi. Crollò sfiancata sulla sedia a capotavola. Non aveva più forza di strepitare. Carl se si accoccolò sulle gambe e mentre lo accarezzava affranta, scorse sul tavolo un gigantesco pacco regalo sormontato da un grosso fiocco rosso, a cui prima non aveva fatto caso. Provò a tirarlo a se, ma la scatola decorata da coloratissima carta non si mosse. Era come fissata. Su di essa era poggiata una lettera bianca… Per jane.

Aprì la busta delicatamente e riconobbe subito la scrittura di Michael, suo marito caduto sul campo in Afghanistan, qualche anno prima. Le lacrime cominciarono a scorrere, prima ancora che le parole incastonate su carta potessero incontrare il suo sguardo.

“Piccola mia. Non avrei mai voluto abbandonarti così. Non avrei mai dovuto. Non posso più accarezzare i tuoi lunghi capelli. Mi manca il profumo della tua pelle. Mi mancano i tuoi abbracci. Mi manca il tuo sorriso e manca anche a te…

Perdonami per averti lasciato sola. Perdonami se la tua vita ora è assenza. Devi buttarti tutto alle spalle, tagliare l’ancora che ti lega ai ricordi e andare dove potrai ritrovare te stessa, dove i tuoi occhi potranno brillare ancora di stupore. Apri il pacco. Sarà il mio ultimo regalo e guidati verso un futuro migliore… Ti amo

Michael”

Jane trafitta dal dolore, pianse per un tempo indefinito, stringendo al petto l’amara missiva. Pianse fino a perdere le lacrime, fino a trovare la forza di aprire quel dono venuto da chissà dove.

Recuperate le energie scartò il voluminoso pacco, al cui interno era custodito un grosso volante, proprio come quello di un tir, con accanto la manovella del cambio. Perplessa sfiorò il manubrio in pelle nera lucida, accorgendosi della presenza di una piccola chiave rossa, inserita sulla destra dell’arnese.

Non aveva più nulla da perdere. Era tra le nuvole, con un gatto, in balia del vento, mentre la polizia in basso, molto più in basso se ne fregava.

D’istinto girò la chiave con un click, afferrò il volante tra le mani, mentre un assordante motore sembrò dare vita alla villetta, che sotto i suoi comandi sferzò decisa nell’etere.

Giro del mondo in 80 giorni? Il suo durò un po’ di più. Esplorò le nuvole, sostando su di esse per sentirsi più leggera. Imparò a sfruttarne la scia , a confondersi nella foschia, a guardare il cielo stellato , mentre dall’altra parte fulmini e pioggia cadevano incessantemente su una terra stanca. Seguì le rondini e il loro vagabondare stridulo a primavera. E si perse nel mondo. Jane la camionista dell’etere, scorazzava in lungo e in largo, parcheggiando la sua dimora ovunque. Dalla cima dell’Everest, ai mari della Polinesia, dalla savana ai ghiacciai islandesi, a cui l’aurora boreale faceva da contorno.

Carl non sembrava infastidito e anche per lui quel ciondolare su e giù sulla linea dell’equatore si trasformò in un’avventura entusiasmante.

Si trasferirono in Messico. Nella penisola dello Yucatan, lì tra mare, tartarughe e storia ebbero la sensazione di aver trovato casa.

Ma altro giro altra corsa, traslocarono a New York, buttando l’ancora a Central park. Circondati da erba, alberi e grattacieli, trascorsero a pochi passi dalla fifth avenue il natale più bello, avvolti dalla neve, da cori gospel e dalle mille luci di una grande mela che non dorme mai.

Li accolse poi la Russia, la piazza Rossa, prima di trovare una piazzola di sosta a Camden Town, dove jane si perse nello shopping, con le narici infestate dall’effluvio di spezie orientali. Trascorsero mattinate in contemplazione della Tour Eiffel e pomeriggi a Montreux, dove al tramonto il sole, come il disco stanco di uno yo yo, interrompe la sua frenetica corsa nelle placide acque del lago di Ginevra.

E ancora Egitto, India, Australia, fino a toccare i candidi e glaciali scenari dell’Antartide. Sempre in giro, sempre alla scoperta, fino a quando un bel giorno ebbe chiara la visione.

sorvolò l’Afghanistan e dall’alto indugiò a contemplare il posto dove la sua vita, come una macchina in piena corsa, si era schiantata mortalmente contro il selciato. Lei ne era uscita viva, almeno fisicamente. Michael no. Terra arida e deserto erano state le ultime scene riprese dagli occhi di suo marito, che aveva registrato tutto su un hard disk reso inutilizzabile da una morte violenta e bastarda, sopraggiunta subdola. Terra arida e deserto osservava Jane dall’alto, mentre le lacrime scorrevano a fiotti sul suo viso, precipitando a cascata, come rapide che hanno perso il letto, nella massa d’aria sotto di lei, quasi a voler raggiungere quei campi sabbiosi per renderli fertili d’amore e pace.  

“Addio amore mio!”

Riaccese i propulsori e più veloce della luce raggiunse l’ultima destinazione. La meta finale. Atterrò delicatamente, consapevole che sarebbe stata l’ultima. Spense i motori, li spense per sempre e si addormentò. La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano le 5:30 e la sua camera da letto era inondata da una luce dorata, come solo l’alba della sua città sapeva creare. Aprì le serrande, fece colazione, andò in bagno, si vestì di tutto punto, accarezzò Carl e uscì a vivere, li dov’era nata, dov’era sempre stata, lì dove aveva sempre desiderato trascorrere i giorni più importanti della sua vita, tra futuro, affetto, amici e ricordi, lì dove si era sempre sentita davvero a casa.

Pietro Liso

*Incipit tratto da Se solo fosse vero di Marc Levy