Tutte le strade portano...

All’uscita dal paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto.

La prima l’ho percorsa un’infinità di volte. Mi è sempre piaciuto il mare. Mi piace il sole, il caldo, le lunghe giornate che sembrano non finire mai e mettono di buon umore.

Il mare mi ricorda le prime vacanze estive, con mia mamma, a Ladispoli, mentre papà restava a Roma per lavorare. Mi ricorda i castelli di sabbia che meticolosamente costruivo e che un ragazzino dispettoso distruggeva: già, perché rompiscatole non si diventa, ma si nasce. E se da grande hai la sfortuna di avere un vicino di casa che alle sette di domenica mattina ti trapana le orecchie, stai pur tranquillo che quello da piccolo si divertiva a distruggere i castelli di sabbia degli altri.

Il mare mi fa anche venire in mente quella volta che mi sono chiusa il dito in una sdraio, che stava sul balcone della casa che avevamo preso in affitto per il mese di luglio. Era una di quelle sdraio di una volta, bella robusta, in legno, con il rivestimento di tela a righe blu e gialle.

Il mare, però, mi piace solo in estate, in inverno mi intristisce, mi fa sentire fuori luogo. Per me è il posto delle risate, delle corse sul bagnasciuga, delle bibite fresche e dei gelati: che c’entra l’inverno, tetro e freddo, con il mare?

E’ bello vivere in una città che dista pochi chilometri dal mare, perché appena hai qualche ora ci puoi andare. Mi piace vivere in una città, caotica e disordinata come la mia ed ho sempre approvato la decisione dei miei genitori di lasciare il paese quando non avevo ancora due anni. Così ho conosciuto dimensioni di vita che, forse, mi sarebbero state precluse in un piccolo centro: la piscina da piccola, il corso di inglese da adolescente, l’università, l’avventura del primo lavoro lontano ottocento chilometri da casa.  

C’è stato però un momento in cui non avrei voluto tornare in città per nulla al mondo.

Dopo il mare, ogni estate, andavo al paese dagli zii e trascorrevo due mesi all’aria aperta, divertendomi con gli amici di sempre. Anche quel primo agosto, al mio arrivo, trovai ad aspettarmi Giulio, Laura e Simone. Avevano più o meno la mia età ed insieme andavamo in bicicletta per i vicoli, giocavamo a nascondino e a campana, oppure semplicemente passavamo il tempo raccontando le cose buffe che ci erano capitate durante l’inverno.

Quel giorno quando li vidi, scorsi sui loro volti e nei loro modi una particolare eccitazione, mista ad ansia e tensione.

- Ciao ragazzi, come state?!? - salutai, contenta di rivederli.

- Ciao! - risposero loro frettolosamente.

- Hai da fare? - disse Simone

- Puoi venire subito con noi? - aggiunse Laura a voce bassa, guardandosi intorno con fare cospiratorio.

- Oh, ragazzi, ma che vi prende?

- Ssshhh!!! - fece Giulio - Seguici disinvolta e non fare domande.

Mollai le mie cose alla zia e mi incamminai parlando del più e del meno, mentre la curiosità ad ogni passo mi mordeva lo stomaco. Loro rispondevano, in apparenza loquaci, salutando come se nulla fosse gli adulti e i ragazzi che incontravamo, ma la loro andatura a cadenza ritmata e senza soste, in direzione dell’uscita dal paese, non lasciava dubbi.

Appena dietro il Santuario, imboccammo un sentiero semi nascosto dalle alte fronde verdeggianti.

- Ehi, insomma, ma dove stiamo andando? Non mi avete sempre detto che questa strada non porta da nessuna parte?

- Dai, dai, cammina! - rispose Simone accelerando il passo - Dobbiamo addentrarci prima che qualcuno ci veda dalla strada.

Mi affrettai anch’io sul sentiero immerso nella vegetazione che cresceva disordinata, respirando un’alea di mistero. E poi, come previsto, il sentiero finì contro un’alta roccia che non lasciava altri sbocchi.

- Qua - disse Laura - vieni a vedere. Cosa ti sembra? L’abbiamo scoperto ieri. Forse era nascosto dietro questo vecchio albero caduto durante il temporale della notte.

- Uaoh! - feci io dopo aver messo meglio a fuoco la vista. - Ma questa è un’incisione etrusca. Somiglia ad altre che ho visto in gita con la scuola al Museo di Villa Giulia a Roma.

- Che è etrusco ci eravamo arrivati anche noi - replicò Simone - Ci viviamo nella terra degli Etruschi! Ma a cosa serve? Cosa significa un’incisione che se ne sta sola soletta su una roccia così alta e ampia?

- Non ne avete parlato con nessuno?

- Ovvio che no!

- Ma alla gita ci hanno detto che è dovere di ogni cittadino avvisare la Polizia o i Carabinieri, quando si scopre qualcosa del genere.

- Eh brava! Così gli altri si prendono il merito. No, no, senti, prima dobbiamo fare qualche indagine, così quando riveliamo la scoperta possiamo già noi darle un nome e magari finiamo sui giornali.

- Ma cosa possiamo indagare noi da soli? Sentite, questa è roba grossa. Va bene, non lo diciamo subito - in effetti l’idea dei giornali allettava anche me - ma abbiamo bisogno di libri per documentarci e, qui, l’unico che li possiede è il maestro Altieri.   

Quello che accadde dopo è ben noto. Tutti infatti ricordano ancora oggi il ritrovamento del famoso “Bimbo d’Oro”, fotografato per giorni sui principali quotidiani, accanto a quattro ragazzini tutt’altro che a disagio di fronte alla schiera di giornalisti, che si avvicendavano nei pressi della roccia. Quello che invece pochi sanno è come tutto ciò possa essere accaduto. Certo, a nostro favore giocarono una serie di eventi fortuiti, il primo dei quali fu il ritrovamento, nella polverosa biblioteca del maestro Altieri, di una antica pergamena, che neanche lui ricordava da quanto tempo si tramandava nella sua famiglia di studiosi. Ma procediamo con ordine.

Sebbene ci fossimo recati dal maestro Altieri con la scusa di una ricerca da fare per i compiti delle vacanze, lui mangiò presto la foglia e noi cantammo. Era un ometto ormai in là con gli anni, dalla mente però ancora acuta e brillante. Vedovo, era accudito dalla governante Cleofe che, quando andavamo, ci preparava fresche orzate e gelati strepitosi. Visto che non usciva di casa da tempo, gli portammo un’istantanea dell’incisione: per fortuna avevo ricevuto in regalo per la Comunione una Polaroid. Mica potevamo usare una macchina tradizionale, se non volevamo che il nostro segreto sfumasse nella camera oscura del fotografo del paese.

Il maestro Altieri osservò minuziosamente l’istantanea per giorni, in assoluto silenzio, munito di una lente di ingrandimento che avrebbe fatto invidia perfino a Sherlock Holmes e, alla fine, concluse che non si trattava di un’incisione etrusca.

- Non è un’incisione etrusca? - si stupì per primo Simone.

- E cos’è allora? - aggiungemmo tutti in coro, dopo giorni di ansia e attesa.

Il maestro Altieri ci spiegò che era si un’incisione, ma non originale. Qualcuno aveva voluto far credere che fosse etrusca. Era comunque datata, vecchia di alcuni secoli. Ma i suoi incisi non erano compatibili con gli utensili a disposizione degli Etruschi, erano di molto successivi.

Il maestro, però, come un segugio, non mollò la presa perché ora era necessario scoprire il motivo che aveva indotto qualcuno, tanto tempo prima, a realizzare un’incisione etrusca falsa.

E così ci mise a disposizione degli sgabelli, assegnò a ciascuno di noi una sezione della sua libreria e cominciammo a cercare non sapevamo bene cosa. Ogni libro, raccolta, foglio che vagamente riconducesse all’oggetto della nostra ricerca doveva essere messo su un ampio tavolo in noce rettangolare, per essere successivamente esaminato dal maestro Altieri.   

Ogni pomeriggio entravamo nella biblioteca col cuore in gola, nella speranza che le nostre ricerche del giorno precedente avessero dato qualche risultato utile e, ogni sera, tornavamo a casa stanchi e impolverati. Le ricerche andarono avanti così, infruttuose, per diversi giorni, fin quando la signora Cleofe pensò bene di approfittare del nostro lavoro di svuotamento progressivo degli scaffali per dedicarsi ad una pulizia straordinaria della libreria.

- Il maestro non mi lascia mai spolverare per bene qui dentro, perché teme che cambi l’ordine dei libri – borbottava. - Ma visto e considerato che i libri ora li state spostando sul tavolo …

E così dicendo, munita di un’alta scala e di strofinaccio, aveva iniziato a dare olio di gomito a tutti i ripiani, con l’energia che la contraddistingueva.

- Oh, ma che succede qui? Maestro, maestro Altieri venga un po’ a vedere! Buon Dio, ma che roba è questa?

Insomma, per farla breve, una mattina, la signora Cleofe, nel fare pressione sul fondo di un ripiano, aveva involontariamente attivato un meccanismo a scomparsa che aveva svelato una minuscola nicchia nel muro dietro lo scaffale, dove era conservata una pergamena, chiusa con il sigillo in ceralacca rossa della famiglia Altieri.

Quando arrivammo quel pomeriggio, il maestro aveva una strana luce negli occhi e la signora Cleofe ci aveva preparato la sua torta migliore, con ricotta, cioccolato e frutti di bosco: non si può descrivere quanto fosse buona, tanto che non ne ho più mangiata una simile in tutta la mia vita.

Ma tornando ai fatti, l’origine di tanta euforia era nel contenuto della pergamena. Scritta da un avo del maestro, vissuto nel ‘500, riproduceva l’incisione della roccia che, a quel tempo, era la parete di un antico maniero. Nel dialetto dell’epoca, conosciuto dal maestro in quanto fine studioso anche della lingua italiana e delle sue origini, l’avo spiegava di aver ritrovato, casualmente, in un anfratto nel bosco, una statua con le fattezze di un bambino, a grandezza naturale, completamente d’oro. Con tutti gli accorgimenti del caso, l’aveva trasportata e nascosta nei sotterranei del palazzo e aveva lasciato quell’incisione sulla parete per ricordare il punto esatto del nascondiglio.

- Un bimbo d’oro?!? - esclamammo con voci strozzate dall’emozione provata nel sentir rivivere un passato così lontano.

- Ma ci sarà ancora? - chiese Giulio.

Evidentemente, gli eventi dell’epoca avevano impedito all’avo di utilizzare il suo ritrovamento. Le autorità, avvisate dal maestro Altieri, circondarono la zona e dopo giorni di scavi archeologici mirati, avvolta in un manto di velluto color porpora ormai consunto, apparve quella che sarebbe divenuta la scoperta etrusca più sensazionale di quegli anni.

Peccato che l’avo, nella pergamena, non avesse fatto alcun riferimento preciso al luogo nel bosco dove aveva rinvenuto la statua. Gli archeologi ampliarono giorno dopo giorno l’area di ricerca, nella speranza di trovare altri oggetti che in origine avessero abbellito, insieme al Bimbo d’Oro, antiche sale o tombe, ma niente. Fu forse anche questo che accrebbe la fama della nostra scoperta: l’isolata presenza di una statua di tale valore e bellezza ne aumentava il mistero e, come si può ben immaginare, alimentava le fantasie più fervide. Non c’era contadino, impiegato o casalinga, che mancasse di mormorare, con fare sapiente: “Ho sentito dire che il Bimbo d’Oro proviene da…” oppure “Pare che il Bimbo d’oro fosse un…”, e così via.

Laura, divenuta direttore del piccolo e prezioso museo allestito dietro il Santuario, non ha resistito alla tentazione di raccogliere in un interessante libro tutte le leggende popolari sorte nel tempo intorno al ritrovamento del Bimbo d’Oro, insieme naturalmente alle teorie degli studiosi più accreditati. Ma la ricostruzione per noi più affascinante, alla quale è maggiormente legato il ricordo di quei giorni straordinari, è quella che tutt’ora racconta Simone a studiosi, curiosi e turisti che visitano il museo, di cui lui è divenuto l’anfitrione d’eccezione.

Come? Volete conoscerla anche voi? Non c’è problema! Simone lo trovate ogni mattina all’ingresso del museo, pronto ad accogliervi con la sua simpatica loquacità. Non dovrete chiedere, sarà lui il primo a parlarvene, e a raccontarvi per filo e per segno questa storia, ovviamente farcita di tanti altri particolari che a me purtroppo sfuggono perché, poco dopo il ritrovamento e le foto sui giornali, la mia vacanza estiva finì e dovetti riprendere la strada per la città, dove, diversi anni dopo, mi raggiunse Giulio.

 

Cinzia Pacelli