Un lupo solitario

Quell’anno il grano era alto. A fine primavera aveva piovuto tanto e a metà giugno le piante erano più rigogliose che mai. Crescevano fitte, cariche di spighe, pronte per essere raccolte.*

Dalla finestra della cucina, il vecchio scrutava con meraviglia lo spettacolo di tutta quella distesa di granoturco e gli metteva addosso una grande nostalgia del passato, perché se ai tempi di suo padre il grano significava tutto, ora significava poco e niente. La storia della sua vita nasceva e finiva tra le mura di quel casolare nel cuore della campagna maremmana.

Bastiàn era l’unico contadino della zona rimasto fedele alle tradizioni più arcaiche, non cedeva alle lusinghe della modernità e con grande cocciutaggine contrastava ogni forma di imposizione. Nella piccola comunità godeva di una notorietà non certo benevola, infatti da tutti era chiamato il Bastiàn Contrario. I bambini quando lo vedevano in paese lo canzonavano intonando la filastrocca:

- Bastiàn Contrario dorme di giorno

la notte lavora o va’ d’intorno;

mangia l’acqua, beve il pane,

carezza il lupo, picchia il cane.

Il cane stupito gli fa: miao miao

e il gatto seccato gli fa: bao bao.

Poco gli importava il giudizio degli altri, Bastiàn era orgoglioso di vivere nella sua beata solitudine. 

Era l’imbrunire quando uscì nel portico abbandonandosi al piacere di respirare quel profumo di fieno essiccato dal sole. Il cane gli corse incontro scodinzolando.

- Bravo Macchia, anche oggi ti sei guadagnato il rancio – disse il vecchio chiudendo a chiave il pollaio per la notte.

Dopo un ultimo giro d’ispezione alle conigliere, rientrò in casa.

La quiete della sera prometteva sonni tranquilli, ma a metà della notte Bastiàn fu svegliato da un insistente uggiolio, quasi un lamento, che proveniva dalla porta che dava sull’orto. Si alzò di scatto e vide fermo davanti all’uscio Macchia che, abbaiando, cominciò a fare la spola tra il padrone e la porta del pollaio, Bastiàn si armò di forcone, prese la torcia, a passi veloci raggiunse il pollaio e senza indugio spalancò la porta.

Il debole fascio di luce cominciò ad esplorare l’oscurità del locale e all’improvviso illuminò la faccia di un bambino che stringeva tra le mani un sacco di iuta legato con un laccio. Poteva sembrare un sacco pieno di grano, solo che starnazzava e si dimenava a più non posso. L’animale imprigionato lottava con tutte le sue forze e si dibatteva puntando le zampe e quando finalmente riuscì a bucare la trama del sacco spuntò la cresta di Oreste, il re del pollaio.

- Guai a te se ti muovi! – gridò il vecchio al bambino, puntandogli il forcone.

Il fruscio di un telone distolse l’attenzione di Bastiàn che spostò lo sguardo e vide spuntare nella penombra altri due occhi grandi e furbi. Poi tutto precipitò.

Il piccolo ladro di polli non si lasciò scappare l’occasione, con uno scatto raggiunse la porta del pollaio e si dileguò nei campi sacrificando il magro bottino e lasciando il compare al suo destino.

La fuga del ladruncolo risvegliò la sua vera natura di Border Collie in Macchia che, finalmente fiero di poter dimostrare la sua innata capacità di pastore si lanciò all’inseguimento della pecorella fuggita dal gregge.

- Sbrigati ad uscire da lì sotto! – intimò il vecchio contadino brandendo il forcone – Alza le mani e cammina lentamente.

Raggiunsero il portico in fila indiana e Bastian accese le luci. A prima vista il ragazzo poteva avere non più di una quindicina di anni, indossava una maglia di tre taglie più grande e aveva un fisico secco che rasentava la denutrizione. L’unica nota vivace del suo aspetto erano gli occhi espressivi, a tratti penetranti, a tratti sfuggenti.

Lo stropiccio delle foglie di granturco spezzò quel silenzio carico di attesa e dal campo sbucò l’esile figura di un bambino seguita da Macchia, che con dei colpetti di muso e dei piccoli morsi, riportò all’ovile la pecorella smarrita.

A pochi passi dal portico i due complici si scambiarono alcune frasi in una lingua incomprensibile.

- Mare, clandestini, fame – farfugliò il ragazzo più grande con voce rauca e tremante.

Quelle tre parole furono sufficienti per far capire tutta la disperazione e la miseria che c’era in quelle vite.

Il vecchio aprì l’uscio e con un muto gesto della mano li invitò ad entrare.

Il tinello era disadorno, con un camino, una madia, un vecchio tavolo di legno, tre sedie e una branda. Sul tavolo si trovavano ancora i resti della cena, Bastiàn aggiunse pane, salame, formaggio e riempì la brocca di acqua fresca. I ragazzi mangiarono tutto avidamente, finché quella statica atmosfera fu interrotta da un leggero russare. Bastiàn accolse tra le braccia il ragazzo più piccolo e lo adagiò sulla branda.

- Mio fratello Habib è stanco… troppo piccolo per questa vita! – disse il ragazzo dagli occhi furbi – Io Shamir… grande, tredici anni. Tu molto buono, non come altri.

Shamir, sorridendo, abbracciò il vecchio e fu un abbraccio caldo e inatteso.

- Dio quanto gli era mancato! – pensò Bastiàn.

Shamir lo guardò fisso negli occhi.

- No polizia vero? – disse con voce implorante – No tornare in Tunisia!

Bastiàn rimase stupito dal tono perentorio, che ben poco si addiceva alla giovane età del ragazzo e ancor di più rimase colpito dalle parole che seguirono.

- Da voi perfino cani e galline mangiano tutti i giorni, anch’io voglio essere cane o gallina.

Il vecchio contadino appoggiò le mani sulle ginocchia.

- Come siete arrivati fino a qui? - domandò con una nota di dolcezza nella voce, che non riconobbe come sua.

Il ragazzo sospirò e cominciò a raccontare.

La notte prima della partenza erano saliti come clandestini sul peschereccio ed erano rimasti nascosti nella stiva sotto dei teloni di plastica, tra bidoni e funi. Alle prime luci dell’alba erano stati imbarcati i migranti che avevano i soldi per quel viaggio della speranza. Dopo ore di navigazione, i due ragazzi, ormai certi di trovarsi in mezzo al mare, erano usciti dal loro nascondiglio mischiandosi tra la folla. Arrivati a Lampedusa, nel caos generale, si erano dileguati per non essere confinati nel centro di prima accoglienza.

A questo punto del racconto, Shamir crollò in un sonno profondo. Bastiàn raccolse da terra gli zainetti e li aprì: dentro c’erano solo due coperte logore, due magliette stracciate e un libro di fiabe. Null’altro. Il vecchio lupo solitario andò alla finestra, guardò tutta quella distesa di granturco e, quella notte, pensò molto mentre Macchia gli leccava la mano.

Era giorno da un bel pezzo e quella mattina tutte le stanze del casolare brillavano di una nuova luce. Dalle finestre spalancate entrava un sole sfacciato come una risata e dal sapore dell’aria si intuiva che qualcosa era cambiato, perfino Oreste quel giorno cantò più volte.

Ci vollero parecchie strattonate prima che i ragazzi aprissero gli occhi e forse il merito fu di quel profumo di uova e pancetta che si propagava nella cucina. Shamir fissò il tavolo apparecchiato, spostò una sedia, prese un pezzetto di pancetta e posò lo sguardo sul vecchio.

- Possiamo rimanere con te nonno? – chiese con la semplicità della gioventù.

Bastian si era già dato quella risposta al primo canto di Oreste.

Gestire una vicenda del genere non era assolutamente semplice. Nascondere due clandestini minorenni era considerato un reato, era impossibile giustificarne la presenza, ma le leggi di Bastiàn Contrario erano diverse da tutte le altre. Suo padre, quando si doveva prendere una decisione o fare qualcosa di rischioso, ripeteva sempre “O i’ pane o la sassata!” e lui aveva scelto. Se mai avesse preso la sassata sarebbe stata per una giusta causa e “in culo la legge!” si disse.

- Potrete restare solo se rispetterete delle regole e se non vi va bene, finita la colazione, sparite dalla mia vista.

- Sì nonno, non ti arrabbiare – biascicò Habib leccandosi le dita.

- Non chiamarmi nonno! Non sono tuo nonno!

Bastiàn si girò di spalle nascondendo gli occhi che brillavano di felicità.

Macchia corse avanti e indietro saltellando attorno ai bambini e abbaiando di gioia iniziò a salire la rampa della scala trotterellando. Di tanto in tanto si girava per controllare se i suoi nuovi compagni di gioco continuavano a seguirlo. Salendo i gradini due per volta, i ragazzi arrivarono al piano superiore e si fermarono a curiosare sulla soglia di una camera dove, al centro della parete, c’era un invitante lettone. Il contadino prese delle lenzuola dalla cassapanca e le porse a Shamir.

- A casa Bastiàn non c’è posto per i fannulloni! – disse – Chi non lavora non mangia. Questa è la prima regola, capito?

- Noi capito nonno – risposero in coro.

Bastiàn Contrario accettò senza fiatare il grado di parentela e uscì dalla stanza.

Le giornate scorrevano tranquille scandite da ritmi ben precisi. Al mattino il canto di Oreste fungeva da sveglia e dopo una ricca colazione i ragazzi erano pronti a svolgere le dovute mansioni. L’intero pomeriggio veniva dedicato al gioco ed era uno spasso per Bastiàn spiarli dalla finestra mentre imbastivano strani giochi frutto della loro fantasia.

Quella mattina, Habib si alzò di malavoglia, provava una gran fatica solo a muovere un braccio.

- Ma le galline e i conigli non potrebbero saltare il rancio? – si disse mettendo un piede dopo l’altro giù dal letto, anche se ben sapeva quanto fosse brutta la fame.

Riuscì solo a oltrepassare il tappeto rosso al centro della stanza, poi i rumori lentamente si attenuarono e anche la luce perse di colore, fino a sbiadire.

Il vecchio aveva appena imboccato il sentiero quando sentì la voce di Shamir gridare il suo nome.

- Nonno, nonno Bastiàn, Habib sta male! È a terra e non risponde!

Salirono la scala di corsa e trovarono Macchia che mugolando leccava il viso del bambino. Habib aprì gli occhi, abbozzando un sorrisetto compiaciuto e poi li richiuse.

- Presto Shamir, corri a chiamare il dottore!

- Ma nonno – rispose il ragazzo in tono allarmato – nessuno deve sapere di noi, dobbiamo restare invisibili.

- So quello che faccio Shamir, non perdere tempo, la casa del dottore è quella bianca laggiù. – disse il vecchio indicandola dalla finestra – Gli basterà guardarti, sentire il mio nome e vedrai che capirà. E anche tu capirai, fidati!

Habib avvertì la presenza di un’altra persona nella stanza, c’era qualcuno con lui, seduto sul suo letto.

- Va tutto bene Habib, nessuno ti farà del male – bisbigliò il dottore accarezzandolo dolcemente sulla guancia.

Quando aprì gli occhi, il bambino pensò di vivere in un sogno, un uomo dalla carnagione scura era chino su di lui e gli aveva appena parlato nella sua lingua.

- Non sarai l’interprete di un centro d’accoglienza? – gli urlò contro in arabo.

- No Habib, sono semplicemente un dottore e un caro amico di nonno Bastiàn. Ora verrà Shamir a tenerti compagnia.

Karim raggiunse la finestra della cucina e fissò a lungo quell’orizzonte che era stato per un po’ anche il suo. Osservò con immutata meraviglia lo spettacolo di quel campo di grano: tutto era rimasto immobile nel tempo, solo Dick non c’era più, il caro vecchio lupo Dick, che in una gelida notte di tanti anni prima, lo aveva trovato vicino al casolare privo di sensi e mezzo assiderato. Ricordava ancora le uniche parole che era riuscito a dire a quell’uomo mentre se lo caricava sulle spalle.

- Io clandestino, clandestino.

Karim si girò con gli occhi umidi.

- Il lupo perde il pelo ma non il vizio! – sussurrò abbracciandolo forte – Vero papà Bastiàn? Vedrai filerà tutto liscio come l’olio. E in culo la legge!

Nel piccolo centro la notizia si diffuse rapidamente, il medico condotto e la sua signora aspettavano con gioia l’arrivo dei nipotini dalla Tunisia.

 

Lorella Miorali

*incipit tratto da Io non ho paura di Niccolò Ammaniti