Un sofferto cambiamento interiore

Le campane l’avevano svegliato alle sette. Appena aperto gli occhi, sotto l’alto soffitto a volta per un attimo ebbe l’impressione di trovarsi dentro una chiesa. Era la sua prima notte dentro la casa e aveva dormito meravigliosamente*.

Nonostante fosse spaventato da rumori persistenti e continui che non era riuscito a comprendere da dove provenissero né da chi o cosa fossero provocati. Allora Eugenio, forte di quella possente struttura che lo sovrastava, immaginò di trovarsi in una chiesa. Ricordò così le funzioni natalizie e pasquali, seduto accanto ai suoi genitori, ai nonni e ai fratelli. Come in un film rivide e rivisse tutti i momenti belli e sereni che aveva vissuto assieme alla sua grande famiglia, addirittura avvertì il profumo dell’incenso che tanto gli piaceva.

Le campane tornarono a suonare e l’incantesimo si ruppe, così tornò alla realtà piena di ansia e preoccupazione. La preoccupazione era più che una preoccupazione…. era, infatti, una vera devastazione quotidiana che scaturiva dalla certezza di sapere di non essere più al suo posto, cioè Eugenio sentiva che non doveva più fare quel lavoro. Era certo che il suo posto fosse altrove e non più lì.

Questa certezza era fonte di disperazione quotidiana e di sofferenza che gli procurava anche somatizzazioni varie e una visione sempre più negativa della vita tanto che, pian piano, si accorse di venire emarginato dalle persone con cui condivideva la sua quotidianità. Ma un giorno partecipò ad un corso di sopravvivenza perché sentiva lievitare la devastazione e fu come se un tornado avesse aperto... anzi “spalancato” con forza una finestra. Che cosa era successo si chiese Eugenio? Nulla di speciale ma mentre ascoltava il docente del corso una frase lo colpì con la stessa forza di una freccia scoccata da un arco, "nulla è cambiato tranne me stesso, quindi tutto è cambiato!!”

Conseguentemente Eugenio cominciò a guardarsi dentro e a riflettere sulle motivazioni che adduceva a se stesso per non sentirsi più al suo posto. E furono giorni di arrovellamento cerebrale, di lotte interiori, di disperazione e di lacrime… si, anche di lacrime. Pian piano capì che doveva farsi aiutare da qualcuno a dipanare quella matassa di considerazioni, di pensieri, di riflessioni che si accavallavano, una sull’altra nella sua testa. Da solo sentiva che non poteva farcela, anzi si sentiva schiantare dal peso di quei ragionamenti. Decise, così, di condividere il suo travaglio con una collega che stimava e con la quale, da sempre, avvertiva di avere affinità. Insieme si sedettero per giorni e giorni interminabili, di pomeriggio, nella casa a sviscerare ogni pensiero, considerazione e riflessione valutando la scelta positiva e la conseguenza negativa. Finalmente Eugenio prese la sua decisione e scelse la libertà. Non era più fatto per quella routine che lo faceva sopravvivere….lui voleva vivere. Da sempre sapeva di essere fatto per gli spazi sconfinati, freddi, schiaffeggiati da venti impetuosi e abbracciati da silenzi assordanti. “Basta!!” disse a se stesso. Si licenziò e in quel momento avvertì la gioia più grande, più liberatoria e più intensa della sua vita. Si recò in aeroporto e acquistò un biglietto per Novosibirsk in piena steppa siberiana. Finalmente si sentì, una volta atterrato, libero e vivo.

- Sono vivo! Sono vivo! - disse con le lacrime agli occhi.

Iniziò a camminare senza meta, non curandosi né del tempo che trascorreva, né di dove andasse, camminava a braccia aperte lasciandosi abbracciare da quel vento freddo e a volte impetuoso. Camminò talmente tanto che arrivò al confine con la Mongolia. Lo capì perché si ritrovò in un accampamento piuttosto grande costituito da numerose e variegate yurte. Yurte di tutte le grandezze e di tutti i colori. La sua presenza generò un immediato vocio e sconcerto tra gli abitanti dell’accampamento. Le differenze somatiche, infatti, tra i locali e lui non passarono inosservate. Cercò un codice verbale comune

per comunicare, per sua fortuna, conosceva molto bene la lingua Inglese perché sua madre gli aveva fatto sempre frequentare scuole internazionali dove si parlava solo in inglese. Riuscì ,così, a farsi capire da un adolescente che divenne il suo interprete. Gli chiese di aiutarlo a costruire la sua Yurta e dove poteva acquistare il materiale necessario. Kevin, questo il nome del Mongolo che gli faceva da interprete, lo aiutò in tutto e finalmente Eugenio potè costruire la sua Yurta. Lentamente, ma progressivamente, intrecciò amicizia con la Comunità e si accorse che i rapporti erano sinceri, disinteressati,altruistici e privi di ipocrisia e opportunismo le due caratteristiche che considerava peggiori e per le quali chiudeva i rapporti con il prossimo quando si accorgeva che le persone avevano queste due pessime componenti caratteriali.

Lentamente, senza neanche accorgersene, si integrò in quel villaggio e acquisì le loro abitudini così come i locali, lentamente, non lo guardavano più come “lo straniero” ma come uno di loro fra di loro. Pian piano si chiese come poteva rendersi utile e si ingegnò ad aiutare chiunque avesse bisogno di aiuto: costruire Yurte,

piantare pali,mungere le giumente, accudire le mandrie, addomesticare i cavalli selvaggi, ecc…ecc. Si!

Questa vita gli piaceva proprio e a pensarci bene era quella che, inconsapevolmente, aveva sempre desiderato: niente sveglie al mattino, nessuna ansia, poco o niente stress ma libertà e rapporti sinceri e autentici con il prossimo. Sembrava tutto perfetto e positivo ma guardandosi dentro Eugenio realizzò che gli mancava un affetto importante da “curare”, un affetto che gli riempisse il cuore di gioia e con cui potesse condividere questa libertà guadagnata con dolore, lasciare,infatti, la sua quotidianità routinaria non è che non gli avesse procurato sofferenza ma il travaglio interiore doveva essere superato ad ogni costo. Capì, cioè, che gli mancava un motivo per cui vivere e spendere la sua vita. Un giorno, mentre aveva accompagnato gli uomini a curare le mandrie al pascolo, scorse, al riparo di una collinetta, concentrati e al riposo in una radura un grande stormo di falchi pellegrini: gli uccelli che da sempre amava e che sin da bambino lo affascinavano e che più e più volte aveva provato ad addomesticare.

Quella vista fu una folgorazione.

- SI! - disse a se stesso - Questo sarà il motivo per cui continuerò a vivere e che mi riempirà la vita di Gioia. Sarò allevatore e addomesticherò i falchi pellegrini! Anche la mia vita, in fondo, è stata un pellegrinaggio!

Conosceva molto bene le differenze somatiche tra i due sessi dei falchi, aveva studiato le loro abitudini, le loro prede predilette, i tempi di cova e di schiusa delle uova, il loro fare “lo spirito santo” quando cercano la preda ed era stata sempre una grande gioia vederli lanciarsi in picchiata fino a sfiorare i trecento chilometri orari per ghermire la preda, sapeva come avvicinarli perché aveva studiato l’etologia di questi stupendi piccoli predatori. Così visse, nella gioia, tutta la vita che gli restava nell’intimità di vedersi cercato e circondato da numerose coppie di falchi pellegrini e di sentirsi utili per aiutarli a riprodursi.

Parizia Cardolini

* incipit tratto da Isola grande Isola piccola di Francesca Marciano