Una mattina non proprio come le altre

La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano le 5,30 e la sua camera da letto era inondata da una luce dorata come solo l’alba della sua città sapeva creare.

Era sua abitudine svegliarsi presto e non gli pesava più di tanto, anzi dalla luce dell’alba traeva ispirazione per la giornata che nasceva e conforto per gli avvenimenti di quella trascorsa.

E poi, non disponendo di un frigorifero, aveva necessità di recarsi presto dal lattaio in fondo al vicolo. Così come, non avendo un’automobile, attendeva il tram delle 6,30 che gli consentiva di arrivare puntuale in ufficio.

La vita parsimoniosa e la puntualità, come espressione di rispetto verso il prossimo, gli davano quella serenità interiore che solo i piccoli grandi uomini sanno ritrovare in ogni raggio di sole, in ogni foglia che cade, nel cinguettio allegro degli uccelli, come in quello dei bambini.

E Osvaldo era un uomo piccolo anche di corporatura. Mingherlino, semicalvo, tono di voce basso e pacato, abbigliamento semplice e curato, trotterellava allegro tutte le mattine incontro alla vita che rinasce.

Alla fermata del tram, le solite facce assorte e assonnate incuriosivano come ogni mattina Osvaldo, che con la sua sensibilità riusciva a intuire, dietro quegli sguardi consueti, gioie e preoccupazioni, disappunto e approvazione.

Ma qualcosa quella mattina lo incuriosì più di ogni altra: un gatto, un meraviglioso gatto nero si aggirava tra la gente in attesa del tram, scrutando col suo musetto austero ogni signore o signora, ragazzo o ragazza che a malapena lo guardavano distrattamente, tutti assorti come erano nei loro pensieri mattutini.

Quando arrivò il turno di Osvaldo, il gattone percepì l’interesse che l’uomo mostrava nei suoi confronti e così, senza batter ciglio, gli si sedette accanto, senza prestare più alcuna attenzione verso gli altri presenti. Osvaldo sorrise di quel buffo atteggiamento e il gattone nero lo ricambiò con un miagolio d’intesa, restando tutto impettito nella sua posizione di attesa.

All’arrivo del tram, i passeggeri salirono in gran fretta. Osvaldo invece, come di consueto, salì per ultimo, con calma, lasciando il passo agli altri che addirittura si spintonavano.

Una volta ripartito il tram, l’uomo notò il gattone seminascosto sotto il sedile che gli era di fronte, che lo guardava con aria quasi divertita e un po’ di sfida.

Osvaldo si guardò intorno e gli sembrò che nessun altro avesse notato il gatto nero.

- Che strano – pensò – eppure è qui. Certo che la gente è davvero distratta.

Alla fermata davanti l’ufficio, scese, sempre con un occhio verso il gatto che, neanche a dirlo, scese con lui.

-    Ma insomma, mi stai proprio seguendo! – esclamò prima di varcare il cancello. Così dicendo, accarezzò il gatto che inarcò la schiena facendo le fusa e girò l’angolo del palazzo.

Il solito vociare e il via vai dei colleghi accolse Osvaldo e lo catapultò nella nuova giornata di lavoro, facendogli così dimenticare il buffo episodio di quella mattina.

Il pomeriggio, all’uscita, il tram stava già arrivando. Con una piccola corsa, Osvaldo salì al volo e, dopo essersi seduto, strabuzzò gli occhi e si guardò intorno.

– Ma tu che ci fai qui? Quando sei salito? – mormorò, chinandosi con aria indifferente, come per rovistare nella sua cartella.

Il gatto nero incontrato quella mattina era di nuovo accucciato sotto il sedile di fronte a lui.

– Voglio proprio vedere cosa fai ora che arrivo a casa – pensò sempre più incuriosito e anche un po’ orgoglioso per essere stato scelto dal gatto.

Aperto il portone di casa, il gattone si insinuò rapido e allegro, probabilmente anche lui fiero di essere stato in qualche modo accettato.

- Avrai senz’altro fame, sei in giro da questa mattina – disse Osvaldo, mentre versava un po’ di latte in un piattino di carta.

Ma il gatto assaggiò appena il contenuto della ciotola spartana e continuò a miagolare e a fare le fusa intorno alle gambe del suo nuovo amico.

– Ops, che stupido che sono! Forse hai bisogno anche di un’altra cosa – e così dicendo Osvaldo prese un cartone che aveva nel ripostiglio, lo riempì di giornali vecchi che si premurò di tagliare a striscioline e lo mise sul piccolo balcone che dava nel cortile interno.  

Il gatto lo guardò negli occhi con aria interrogativa, guardò il cartone e, annusato il tutto, si voltò e tornò a bere svogliatamente il latte.

– Ah, ho capito – disse Osvaldo, ammirando il bel manto lucido e pulito – Tu devi essere un gatto da salotto, di quelli che mangiano il cibo delle scatolette dorate della pubblicità.

Il gatto, quasi avesse compreso, emise un miagolio di assenso e mostrò uno sguardo attento e speranzoso.

– Eh no. – proseguì Osvaldo – Qui si mangia quello che c’è in casa e gli avanzi del giorno prima.

Il gatto, rassegnato, tornò al suo latte.

Dopo cena, Osvaldo si raccolse nella sua lettura. Il gatto da principio gli si sdraiò accanto, ma dopo un po’ cominciò a vagare per la casa come in cerca di qualcosa. Allora Osvaldo, con un po’ di carta stagnola, improvvisò e lanciò una pallina che il gatto apprezzò, ma solo per poco. Poi divenne di nuovo inquieto, continuando in particolare a salire e scendere da un mobiletto basso davanti alla poltrona, che avrebbe dovuto accogliere un televisore.

– Ma non mi dire che tu stai cercando il televisore… proprio come il gatto di Giovanni – rifletté ad alta voce Osvaldo, ripensando a quanto aveva raccontato un giorno il suo collega durante la pausa pranzo – Eh, eri abituato proprio bene nella tua vecchia casa! Beh, se vuoi restare con me, ti dovrai adattare, ma vedrai che non è male.

Iniziò così una convivenza fatta in principio di aspettative e delusioni, che lasciò negli anni il posto a un legame indissolubile. Osvaldo e Micio Macio si intendevano ormai alla perfezione.

Un giorno il gatto vide che il suo amico era meno scattante e allegro: giocava con lui in maniera svogliata e nel piattino di carta versava più avanzi del solito.

Finché una sera entrarono in casa due uomini sconosciuti. Micio Macio, da sotto la credenza dell’ingresso dove si era rifugiato, li osservò armeggiare per un po’ e infine li vide portare via Osvaldo su uno strano letto senza zampe, mentre la signora Luigia lo afferrava e lo portava con sé nella casa vicina.

Micio Macio impiegò qualche tempo ad abituarsi alla nuova casa e alla nuova padrona. Trascorse oltre due settimane nascosto sotto il lettone della signora Luigia, che lì gli lasciava anche una bella ciotola rossa piena di tante leccornie.

Poi pian piano si rassegnò a vivere nel nuovo ambiente. Uscì quatto quatto da sotto il lettone e iniziò ad annusare ogni angolo della casa, dove trovò la TV e varie palline colorate e soffici con cui giocare.

– Lo tratto con tutti i riguardi – diceva la signora Luigia ad Osvaldo che stentava a rimettersi – Eppure ha un’aria sempre così spenta. Si rianima solo quando torno dalla clinica dopo averle fatto visita. Secondo me sente il suo odore. Ma guardi, guardi cosa le ho portato. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere – e gli mostrò un bel primo piano di Micio Macio.

– Grazie – disse Osvaldo commosso – Ha avuto veramente un pensiero gentile, la ringrazio tanto.

– Ma si figuri. Lo sa quanto amo gli animali. Stia tranquillo e pensi a rimettersi, al gatto ci penso io – e così dicendo si avviò all’uscita.

L’anziano e austero vicino di letto, anch’egli malmesso, incuriosito dai discorsi che sovente ascoltava riguardo al gatto, sporse la testa e sbirciò la foto che Osvaldo stava amorevolmente ammirando.

– Ma quello è il mio gatto – esclamò.

– Prego? – fece ridestandosi a fatica Osvaldo.

– Si. Si. Quello è il mio gatto Sansone, lo riconoscerei tra milioni!

E così, i due anziani signori scoprirono di abitare in due quartieri limitrofi, uno più benestante e l’altro più popolare.

– Beh, ho capito subito che Micio Macio proveniva da una vita agiata - disse Osvaldo - Sa, ci ha messo un po’ ad abituarsi alle ristrettezze. Ma come mai era in strada, le era scappato? Eppure non ricordo di aver visto degli annunci in giro per il quartiere.

Il benestante vicino di letto, abbandonata per via della malattia la sua innata tracotanza, distolse lo sguardo e raccontò.

– Era un gatto meraviglioso, lo portavo a tutte le fiere feline e vincevamo sempre un premio. Io ero molto fiero di lui e lui lo capiva e ne approfittava: ogni novità nel negozio di animali era sua. Poi chissà come arrivò quella brutta infezione che colpì il suo bellissimo occhio sinistro color ambra. Lo feci operare d’urgenza, ma non ci fu nulla da fare e perse l’occhio. Niente più concorsi felini, niente più trofei. Il rapporto tra me e lui, col tempo, si andò deteriorando. Forse capiva di non potermi più regalare quelle soddisfazioni materiali di cui andavo tanto fiero. Così un giorno decisi di lasciare aperta la porta di casa, insomma lasciai a lui la decisione di restare oppure andare. E lui andò.

Già, il gatto nero andò. Andò incontro ad una vita fatta di solo amore, che lo avrebbe trasformato da Sansone in Micio Macio.

 

 

Cinzia Pacelli